Dialetto

Stévemo scarze… (a chiàveche)

di Francesco  De Luca

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Da noi, a Ponza, si dice: stevemo scarze a chiaveche… ce si’ venuto tu…
Non faccio il verso ad Erri De Luca: lui non ha bisogno del mio supporto, io non merito il suo confronto.
Ricordo questo modo dialettale di rassegnarsi alla presenza e all’influenza di compagni bollati  dalla comunità come sgraditi e poco raccomandabili, E pur tuttavia da tollerare, da includere nel contesto del gruppo. Perché?
La domanda si fa pressante e rende evidente la differenza fra la società di ieri al confronto con quella di oggi; fra la comunità di un borgo marinaro e quella di un complesso turistico.

Società e comunità. Tento una distinzione connotativa.
Società è un insieme di uomini uniti civilmente da leggi condivise.
Comunità è un insieme di uomini uniti da leggi e partecipanti ad un progetto comune.
La società tende alla sussistenza; la comunità tende ad affermare nella sussistenza un insieme di valori comuni.
Ponza nella mia infanzia era una comunità. Ponza in cui vivo oggi è una società. Giacché è composta da organismi sociali ( commercianti, pensionati, agricoltori, manovali, pescatori, casalinghe, studenti ecc. ) che, ciascuno per sé e in relazione con gli altri, tende a sopravvivere e a svilupparsi.
La comunità invece si nutre di un fattore in più. È il fattore morale, di natura sentimentale.
La comunità non vuole (più esatto dire: non voleva) soltanto sopravvivere e svilupparsi, bensì anche trascorrere l’esistenza felicemente, e preparare l’humus alla felicità della discendenza.

Ho scomodato la parola ‘felicità’. Non storcete il naso. La felicità esiste e come tale  va perseguita. Anzi va più perseguita che raggiunta perché è nel tentativo che essa trova compiacimento.
È questo fattore ‘morale’  che oggi non c’è più. Anzi lo si allontana come nocivo. Basta ed  avanza la sopravvivenza.
Ne consegue che non c’è posto per l’inclusione.
I chiaveche (gli indesiderati) ci sono sempre stati, oggi come ieri. E non sono mai stati scarsi… pur tuttavia li si teneva accanto. Perché? Perché è il tutto che evidenzia le parti. Nelle singole parti non v’è il tutto. E il tutto comprende: il commerciale e il culturale, il religioso e il profano, il ‘normale’  e il diverso, l’impresario e il lavorante.

Chi vo ’a luna campa sulo ’i notte.
Chi mangia crudo va stitico.
A ’u criaturo ’nfasce basta ’a zizza:
dorme,
cresce,
e nun vò’ sfizzie.

Nota a didascalia all’immagine scelta dalla Redazione:

Ll’aucielle s’appareno ’ncielo e ‘i chiaveche ’nterra.
Letteralmente: gli uccelli si accoppiano in cielo e gli uomini spregevoli in terra. È la trasposizione in chiave rappresentativa del latino: similis cum similibus (congregantur), con l’aggravante della spregevolezza degli individui che fanno comunella sulla terra.

Un articolo (quasi) con lo stesso titolo è stato proposta da Paolo Mennuni sul siro, pochi giorni fa: leggi qui

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