segnalato da Tano Pirrone
Una vignetta di Sergio Staino (2013), in dono a Gianni Cuperlo
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Propongo un commento di Gianni Cuperlo, un uomo politico italiano che conosco personalmente e stimo molto – su un personaggio poco conosciuto, ma di grande spessore intellettuale, Marc Bloch, fucilato dai nazisti il 16 giugno di ottant’anni fa. Il post di Cuperlo su Facebook prende le mosse da un articolo che la Repubblica ha dedicato al fatto, lo scorso 13 giugno, con un’intervista di Simonetta Fiori a Carlo Ginzburg, storico e saggista (l’articolo è stato annesso in file .pdf a fondo pagina, a cura della Redazione).
T. P.
Marc Bloch/ Alamy Stock Photo (dall’articolo di Repubblica)
Testo di Gianni Cuperlo su Facebook (con riferimento all’articolo su Repubblica)
Oggi pomeriggio (sabato 15) si va alla Festa del Pd di Campi Bisenzio (alle 17.30, per chi può e ha voglia), ma è di domani – 16 giugno – che vorrei parlarvi (cioè, scrivervi qui sopra), e sarò grato davvero a chi tra voi avrà tempo e modo di seguirmi fino in fondo.
Allora, il 16 giugno.
Sarebbe (insomma, è) il Bloomsday, la giornata che celebra il ricordo del 16 giugno 1904, che poi sarebbero le 24 ore vissute da Leon Blum, l’Ulisse di Joyce.
In Irlanda, ma anche nella mia Trieste, l’occasione serve a ripercorrere le orme di quel capolavoro della letteratura (per alcuni, forse molti, il più grande romanzo del Novecento).
Come ho già confessato qui sopra, non posso annoverarmi tra gli eletti, nel senso che per due volte ho approcciato il testo senza portarlo a termine. Un limite evidente e tutto mio che prima o poi spero di riuscire a superare (giuro che ci proverò col giusto impegno!).
Dunque, il 16 giugno non lo ricordo per il flusso di pensieri di Leon Bloom.
Voglio ricordarlo, qui con voi, per un anniversario diverso che però, forse, parla a noi più di quanto avremmo immaginato soltanto qualche anno fa.
Ne hanno ragionato ieri, sulle pagine della cultura di Repubblica, Simonetta Fiori e Carlo Ginzburg, storico illustre e figlio di Leone e Natalia Ginzburg.
Dunque, il 16 giugno 1944 (domani saranno ottant’anni esatti) i nazisti fucilavano il più grande storico del secolo alle nostre spalle. Accadeva vicino a Lione, in una località chiamata Saint-Didier-de-Formans.
Lui era Marc Bloch e, più o meno questa era la sua storia.
Bloch era un ebreo alsaziano. Parliamo di quella Alsazia e Lorena che erano rimaste francesi fino al 1870 quando con la guerra Franco-Prussiana, Bismarck ebbe la meglio su Napoleone III.
Finiva l’impero francese e vedeva la luce quello tedesco (il secondo Reich) con gli abitanti di Alsazia e Lorena messi nella condizione di scegliere se rimanere sotto il nuovo dominio o“emigrare” (cioè, rimanere) in Francia.
I Bloch optarono per la cittadinanza francese e Marc Bloch quell’identità avrebbe rivendicato per sempre.
Lo strappo lasciò lunghe code e non si capiscono le insostenibili riparazioni di guerra imposte alla nazione tedesca alla conferenza di Versailles (siamo al termine della Prima guerra mondiale) se non come rivalsa verso quella vecchia pagina (mai sottovalutare i pericoli del nazionalismo europeo!).
Ma torniamo a Bloch.
Nel 1914 si arruola volontario e termina la guerra col grado di capitano, giudicato da tutti un ufficiale di valore.
Per due volte venne ferito, si ammalò di tifo trascorrendo diversi mesi ricoverato, fu colpito anche da un’artrite reumatica alle mani che lo perseguitò per tutto il resto della vita.
Fu però da quella esperienza durissima e dolorosa (come sono sempre le guerre) che trasse pensieri e studi destinati a consacrarlo come un gigante della disciplina.
In particolare, si era convinto che della memoria bisogna sistematicamente diffidare perché fragile e facilmente condizionabile.
Lui stesso si rese conto di conservare dell’impatto con la guerra immagini diverse, e persino contraddittorie, con grandi amnesie e qualche parvenza in bilico tra la realtà e qualcosa che realtà non era.
In altri termini, da giovane storico comprende quanto sia debole quel solo rivolgersi alla memoria e, come spiega Alessandro Barbero, si trova di fronte al problema degli storici e dei magistrati (che fanno lo stesso lavoro: ricostruire i fatti tramite la memoria e le testimonianze).
Salvo scoprire che della testimonianza non ci si può fidare senza limiti perché esiste anche una psicologia della testimonianza, per quanto espressa in buona fede.
Il risultato di queste riflessioni è condensato in un libro, “La guerra e le false notizie”.
Bloch si interroga su come queste false notizie prendano vita e si diffondano: lui si convince siano meccanismi psicologici del singolo individuo capaci, però, di estendersi alle masse.
Non è affatto una banalità o un concetto scontato: sino a lì nessuno aveva coltivato un approccio simile e si inaugura con lui un versante del tutto originale della ricerca storica.
Più o meno un diverso sentiero della storia: che indaga su come matura e si trasforma il modo di pensare di soldati, contadini, operai.
Il passo successivo è un altro libro, annoverato tra i suoi capolavori (per alcuni, il suo capolavoro). Esce nel 1924, s’intitola “I re taumaturghi” ed è la parabola di una credenza collettiva.
Per secoli nel medioevo e fino all’età moderna i francesi avevano creduto che i re di Francia e Inghilterra semplicemente apponendo le loro mani sul malato potessero guarirlo dalla “scrofola”(una forma di tubercolosi delle ghiandole linfatiche).
Fino a Bloch si trattava di pure superstizioni popolari, lui si interroga sulle radici e ragioni di quella credenza, insomma come si formava nella coscienza della gente.
In questo sforzo di scavo, l’esperienza della guerra gli aveva insegnato a comunicare col popolo e a comprendere le trame del suo ragionare: monito che avrebbe seguito con costanza cercando di colmare la distanza tra la disciplina storica e le persone che quella disciplina doveva raccontare.
Per migliore chiarezza: aveva piena consapevolezza di appartenere a un ceto privilegiato, ma si sentiva altrettanto coinvolto da quanti – ed erano i più, allora come oggi – vivevano e capivano il mondo senza possedere biblioteche dentro casa.
Fu questo modo rivoluzionario di intendere la ricerca a spingerlo verso interessi all’apparenza preclusi alla Storia (con la maiuscola). A interrogarsi sui motivi della forma dei campi, o “del modo di potare le viti in Provenza o Borgogna, o perché quel tipo di aratro”…domande assolutamente nuove che pone per la prima volta.
Nel ’29 esce il primo numero della rivista Annales.
Anch’essa muterà il corso dello studio e delle ricerche, la concepisce assieme a un altro grande storico, Lucien Febvre (ma di quest’ultimo vi ho già parlato e lo trovate descritto nel mio “Rinascimento Europeo”).
L’idea è quella di una rivista mai pensata prima, dove si parla di lavoro, prezzi, salari, tutte cose che in precedenza interessavano al massimo una nicchia ristretta di affezionati esperti.
La rottura stava nell’abbattere i muri che separavano la ricerca storica dalle altre scienze sociali.
Tradotto, un bravo storico deve anche sapere di economia e di salari e moneta; di sociologia per conoscere i comportamenti dei diversi gruppi sociali; di antropologia così da indagare sulle credenze e i riti.
Insomma, il traguardo diveniva far cadere le barriere che impediscono al sapere di costruire la retedi legami tali da restituire una visione complessiva e critica della realtà.
Bloch si muove alla ricerca di temi e ambiti prima mai studiati. Si occupa di alimentazione, della marmellata fatta in casa come rito borghese, ma la marmellata, scrive, “vuol dire zucchero”.
Nel ‘35 lo zucchero costava poco, ma prima costava molto e solo con la barbabietola (che non viene più dai Caraibi) si poteva fare la marmellata anche nelle case umili.
Amava il cinema, anche qui in controtendenza, col suo ceto: coglieva l’aspetto sociale del cinema, con gli operai che frequentano quelle sale, mentre i borghesi continuavano a bearsi dei loro teatri.
Ecco, tutto questo e tanto altro ancora è stato Marc Bloch.
Poi, la sera del 16 giugno del ’44 – dieci giorni dopo lo sbarco in Normandia – assieme ad altri 29 detenuti (era entrato nella Resistenza a Lione e qualche giorno prima era stato arrestato) viene portato dinanzi a una decina di SS.
Lui è il più anziano, ha 57 anni.
Il più giovane solamente 19.
Cadono sotto la prima raffica, poi una seconda sparata sui corpi a terra li finisce.
Due solamente si salvano fingendosi morti e racconteranno.
Che sia leggenda o meno (e trattandosi di Marc Bloch, pure se lo fosse avrebbe un significato unico), che sia o meno leggenda, dicevo, si racconta che sul camion che li portava a morire vedendo il ragazzo di fianco a lui disperarsi gli abbia detto, “No, petit, non farà male”.
Pare anche che cadendo a terra avesse detto soltanto “Vive la France!”.
Finiva lì la storia in vita di Marc Bloch.
E a me pareva giusto ricordarlo qui con voi per le ragioni che non debbo scrivere.
Perché le conoscete benissimo!
Buon fine settimana e un abbraccio
Gianni Cuperlo
Carlo Ginzburg (foto Mike Palazzotto), dall’articolo di Repubblica
Carlo Ginzburg ‘Il mio maestro Marc Bloch’, di Simonetta Fiori. Repubblica 13.06.2024.pdf
Sandro Russo
16 Giugno 2024 at 12:39
Segnalo bonariamente e in empatia con l’autore – per aver avuto le sue stesse difficoltà con il romanzo, in gioventù – che il protagonista dell’Ulisse di Joyce non si chiama Leon Bloom, ma Leopold Bloom!
Scritto godibilissimo, grazie a Tano e a Gianni Cuperlo.