Storia

Il D-Day raccontato da Corrado Augias

segnalato dalla Redazione

 

Abbiamo avuto nei giorni scorsi la ricorrenza di una serie di  di eventi accaduti 80 anni fa, nel 1944, in giorni abbastanza contigui, quando sembrò che la lunga guerra in corso da anni avesse preso una improvvisa accelerazione… e potesse finalmente avere una fine. Ma in quei giorni, 80 anni fa ancora di combatteva ferocemente… e si moriva
Abbiamo rievocato i lunghi quattro mesi (e un giorno) della battaglia di Montecassino (leggi anche qui, per un commento di Sandro Russo sui Cimiteri intorno a Cassino).
La ricorrenza della liberazione di Roma si è rievocata il 4 giugno.
Proponiamo a completamento dei grandi eventi di quel periodo un articolo sullo sbarco in Normandia a firma di Corrado Augias, da la Repubblica.

LA STORIA
La grande fabbrica del D-Day
di Corrado Augias – Da la Repubblica del 7 giugno 2024

La preparazione dello sbarco in Normandia di ottant’anni fa fu un’impresa logistica paragonabile al passaggio delle Alpi di Annibale

Lo sbarco in Normandia fu un’impresa così straordinaria, che per alcuni aspetti rimanda ad un’altra impresa alonata di leggenda, quella del geniale Annibale che fa attraversare le Alpi ai suoi elefanti. Prima di ogni altra considerazione c’è quella di aver concepito e ritenuto realizzabile, sia pure a carissimo prezzo in vite umane, un assalto alla costa settentrionale della Francia che i tedeschi avevano potentemente fortificato. Lo si può vedere anche oggi da ciò che rimane e proprio una visita dei luoghi mi spinse anni fa a fare ricerche sull’evento.

Per me romano, al significato generale s’aggiungeva infatti l’elemento emotivo che lo sbarco avvenne il 6 giugno 1944; due giorni prima, il 4, Roma era stata liberata, per un giorno ebbe le prime pagine dei giornali negli Stati Uniti; poi arrivò la Normandia e Roma scomparve. Il comandante in capo dell’operazione, il generale americano Dwight Eisenhower sapeva di mettere in gioco in quell’impresa il suo destino, in caso di fallimento sarebbe precipitato nella vergogna dato l’alto numero di uomini che in ogni caso sarebbero caduti; in caso di vittoria si aprivano per lui, come poi fu, le porte della Casa Bianca.

Le truppe di sbarco erano formate da soldati di tutta l’alleanza, compreso un contingente francese. Gli americani dovevano conquistare il tratto di costa più difficile, una spiaggia fortificata ai piedi della penisola del Cotentin, denominata Omaha Beach. Il breve tratto sabbioso era chiuso da alture con pareti quasi verticali, scogliere non molto dissimili da quelle di Dover sull’opposta costa inglese; in Francia però sormontate da bunker teoricamente imprendibili; gli uomini che arrivavano fradici dal mare si trovavano sotto il fuoco micidiale delle mitragliatrici senza possibilità di rispondere fino a quando non si fosse stabilita una solida testa di ponte.

Due film grandiosi mostrano quale ardimento fu necessario per conquistare Omaha Beach. Il giorno più lungo del 1961 con John Wayne protagonista, vi presero parte numerosi registi ma il vero autore è sicuramente l’uomo che a ogni costo l’aveva voluto, il produttore D. F. Zanuck.
Poi nel 1998 Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg, protagonista Tom Hanks. I primi venti minuti ricostruiscono con sconvolgente realismo proprio le difficoltà e le insidie che i militari americani incontrarono su quella spiaggia.

Di quella pagina di storia, sappiamo tutto ciò che è possibile sapere. Molto venne filmato mentre i fatti erano in corso, il resto è stato poi ricostruito con tutta l’attendibilità che in casi come questi si può sperare d’avere perché ricostruire una battaglia è a sua volta un’impresa di immensa difficoltà. Si tratta di eventi caratterizzati dal disordine, dal caos delle iniziative individuali, dalla paura, dalla ferocia.

Do un dettaglio che illustra di quali mezzi i paracadutisti americani, lanciati nel buio della notte precedente, erano dotati: ogni uomo aveva addosso un paracadute di riserva poggiato sullo stomaco, sotto il paracadute un apparecchio radar del peso di 14 chili. All’imbracatura del paracadute erano agganciate alcune bombe a mano, a tracolla un fucile mitragliatore; in varie parti del corpo distribuiti un pugnale, una Colt 45, una bomba da segnalazione, una bomba al fosforo, una borraccia d’acqua, una mina anticarro, una siringa di morfina già predisposta, razioni D (a base di cioccolato) e, aggiunta quasi commovente, un’edizione economica di Oliver Twist di Dickens stampata apposta per le forze armate. Gravati da quel peso gli uomini avanzavano barcollando fino a quando non potevano liberarsi degli oggetti non più necessari.

Nelle ultime settimane prima dell’invasione tutta l’Inghilterra meridionale s’era trasformata in uno sterminato accampamento e magazzino militari con non poche frizioni con i locali. Lungo le strade e nelle campagne si concentravano mezzi motorizzati e blindati, munizioni per ogni tipo di armi comprese le mine, carburanti, materiali del genio: parti di ponti compresi i ponti di barche, rotoli di filo metallico d’ogni calibro compreso il filo spinato, gli apparati di comunicazione individuali e di compagnia, tutto ciò di cui l’esercito moderno di una grande potenza industriale deve avere prima di cominciare a combattere. Bare anche, migliaia di bare e sacchi per contenere cadaveri, tutti sapevano che il costo umano sarebbe stato altissimo.

Un altro aspetto che vale la pena di rievocare sono le operazioni di spionaggio e controspionaggio che precedettero l’invasione e in larga misura ne assicurarono la riuscita. Gli uomini che vi si applicarono avevano il compito di non far scoprire ai tedeschi quale fosse il tratto di costa scelto per lo sbarco; il punto più conveniente per un attraversamento del Canale è ovviamente quello che corrisponde al Pas de Calais. Scelta così ovvia che Rommel, responsabile della difesa, proprio lì aveva fatto rafforzare al massimo le fortificazioni: il Vallo atlantico.

Nell’opera di disinformazione si arrivò a una finezza che costituisce da sola un insuperato capolavoro della contro-informazione. La storia di questa parte meno conosciuta della guerra si sviluppa con un andamento romanzesco fino ad incarnarsi nella figura, non si può dire se più straordinaria o tragica, di un uomo.

Da un ospedale londinese venne prelevata la salma di un uomo sui quarant’anni morto di polmonite. Il cadavere venne rivestito con l’uniforme di capitano dello stato maggiore, munito di un salvagente in uso nelle forze aeree britanniche, dotato di documenti d’identità e ricordi personali così precisi da comprendere tra l’altro la lettera d’una finta moglie che si lamentava di non avere notizie e la foto di alcuni finti figli. Al busto del finto capitano venne assicurata una cartella impermeabile con documenti in chiaro e in codice che descrivevano concentramenti di truppe in previsione di uno sbarco nella zona di Calais. Il cadavere venne lanciato nottetempo in una zona di mare frequentata da sottomarini tedeschi. L’operazione, si seppe in seguito, riuscì. I tedeschi credettero davvero che il povero morto con i polmoni pieni d’acqua fosse un ufficiale di collegamento annegato in mare dopo l’abbattimento del suo aereo. Nessuno degli stratagemmi e degli inganni avrebbe però avuto una tale efficacia se gli Alleati non fossero stati a conoscenza delle chiavi per portare in chiaro i codici cifrati dai tedeschi grazie a una complicatissima macchina chiamata “Enigma”. Nelle molte ragioni che hanno permesso la vittoria alleata e la sconfitta della Germania nazista rientra sicuramente la violazione di “Enigma” da parte di un gruppo di uomini, guidati dal geniale matematico britannico Alan Turing, che riuscì a decifrare il complicato gioco di chiavi incrociate, un baluardo che i progettisti della macchina ritenevano insuperabile. Qui però si apre un’altra storia, la vicenda conclusasi tragicamente di uno degli uomini che hanno aperto la strada alla nostra era digitale ed è necessario fermarsi.

In formato .pdf: La Repubblica del 7 giugno 2024. D-Day. Corrado Augias

Immagini dall’articolo
L’ingresso in città Soldati alleati americani entrano a Roma accolti dalla popolazione
In alto (e in copertina), lo sbarco a Utah Beach

 

 

2 Comments

2 Comments

  1. La Redazione

    10 Giugno 2024 at 10:42

    La Redazione segnala L’amaca di Michele Serra dallo stesso numero di Repubblica che contiene l’articolo di Augias
    L’amaca
    La morte e la fanfara

    di Michele Serra
    Le rievocazioni e le cerimonie per l’ottantesimo dello sbarco in Normandia hanno avuto un pregio tutt’altro che secondario, e soprattutto non scontato. Si è parlato di quella pagina decisiva della Storia come di una carneficina. Sicuramente utile a rovesciare le sorti della guerra: ma al prezzo di una inaudita mattanza, tal quale viene descritta, con una crudezza a tratti insopportabile, nella ricostruzione cinematografica più celebre, quella di Spielberg in Salvate il soldato Ryan. Per quelli della mia generazione le commemorazioni belliche, dal Risorgimento in poi, sono pervase di stendardi al vento, sciabole sguainate, valor militare. Non ho memoria, né alle elementari né alle medie né al liceo, di immagini o parole che riportassero la guerra alla sua sostanza materiale, che è quella della morte violenta e dei cadaveri esposti alle mosche. È possibile che la mia prima percezione non retorica della guerra sia una poesia di Ungaretti: “Un’intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato, con la sua bocca digrignata”. Si chiama Veglia, è ambientata sul Carso nella Prima Guerra Mondiale, forse era in un’antologia ginnasiale meno imbalsamata delle altre (parlo degli anni Sessanta del secolo scorso), forse ce la fece leggere un/una prof più irrequieta della norma. Mi è sempre rimasta impressa. Poi venne la Guerra di Piero di De André, con i cadaveri dei soldati “portati in braccio dalla corrente”.
    La guerra è fonte secolare di retorica, non si contano i monumenti a generali o militi che grondano baldanza e patriottismo. È un passo avanti questo piegarsi su migliaia di giovani uomini freddati da un proiettile (i più fortunati) o sventrati e riversi nella sabbia, poi ricomposti in quelle distese di uguali che sono i cimiteri militari. La guerra è morte e fanfara, in questo caso la memoria della morte è stata più forte della fanfara. Segno di civiltà.

  2. Sandro Russo

    10 Giugno 2024 at 11:20

    La mia formazione in questo campo è stato il libro niente Niente di nuovo sul fronte occidentale di Eric Maria Remarque – titolo originale Im Westen nichts Neues, letteralmente All’Ovest niente di nuovo – e descrive la vita (o meglio la morte) nelle trincee della Prima Guerra Mondiale sul fronte tedesco. Come pure Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu, dal fronte italiano (sul sito, leggi qui)
    Del primo libro ricordo ancora la spiegazione del titolo (e forse faccio confusione tra il romanzo e il film che ne è stato tratto): finisce con la morte del protagonista Paul, con una pallottola in fronte mentre il bollettino militare annuncia: “Niente di nuovo sul fronte occidentale”. Tanto è ininfluente la morte di un singolo essere umano nel tritacarne della guerra.

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