segnalato dalla Redazione da Il Venerdì di Repubblica
Intervista/1
Le frontiere le abbiamo in testa
Di Daniele Castellani Perelli – Da il Venerdì del 24 maggio 2024
Dall’infanzia a Strasburgo ai libri di Stefan Zweig. Enrico Letta, già presidente del Consiglio italiano e segretario del Pd, racconta al Venerdì, come fu che è diventato un europeista.
A sventolare con più passione la bandiera della UE è chi vorrebbe farne parte: ucraini, bielorussi, georgiani…
Tante idee federaliste che sembravano utopia fino anche a dieci anni fa ora non lo sono più. Perché ora?
«Perché negli ultimi anni, specie dopo la sequenza eli gravi crisi che abbiamo vissuto, si è rafforzata una duplice, contestuale, necessità di cambiare. La prima è legata alla capacità di influenza dell’Europa in uno scenario sempre più sfidante. Oggi nel mondo, così diverso rispetto agli anni in cui si definì l’attuale architettura istituzionale della Ue, ci sono giganti che rendono la taglia dei singoli Stati membri troppo piccola per competere alla pari sulle grandi partite strategiche ed economiche. Solo uniti possiamo farcela, divisi siamo destinati, ciascuno, all’irrilevanza. La seconda spinta a cambiare nasce dal caos tutt’attorno a noi e dalla minaccia rappresentata da regimi o leadership – penso a Putin ma anche a Trump – che contrastano alla radice il nostro modello di democrazia e lo Stato di diritto.
Per l’una e l’altra ragione non possiamo stare fermi, ma dobbiamo rilanciare l’Europa unita con idee ambiziose e lungimiranti».
Lei ha girato 65 città del continente per lavorare al suo Rapporto sul Mercato unico, nato su incarico della Commissione Ue. Che lezione ne ha tratto?
«Il viaggio è stato estremamente rivelatore di quanto, ovunque, si avverta la necessità di una Ue più solida e concreta. Più di ogni altra cosa, però, mi ha colpito la passione di sventolare le bandiere europee fuori dall’Europa. Di chi ci vede, a ragione, terra di libertà e benessere. Dei tanti europeisti che, appunto da fuori, ci ricordano la fortuna e la responsabilità di essere cittadini europei. Penso all’incontro col ministro delle Finanze ucraino Sergii Marchenko, a quello con la bielorussa Svetlana Tikhanovskaya o con i tanti georgiani oggi in lotta per difendere il sogno europeo di indipendenza e libertà».
E lei? Quando e perché ha cominciato a sentirsi europeista?
«Da giovanissimo. Il ricordo è legato alla mia infanzia a Strasburgo. Mio padre era professore universitario di Matematica e ci spostammo lì per alcuni anni con tutta la famiglia. Ho quindi vissuto gli anni dell’adolescenza, della formazione anche intellettuale, proprio sulla frontiera forse storicamente più emble-matica dell’Europa, quella tra Germania e Francia. Una frontiera che, anche se esisteva già la Comunità europea, era ancora tale negli anni Settanta».
Quali sono i suoi personali simboli dell’Europa unita?
«I libri di Stefan Zweig e di Paolo Rumiz. In entrambi ci sono un respiro ampio e un invito all’apertura che si traducono non solo in una visione cosmopolita, ma in una attitudine alla comprensione delle genti e alla esaltazione della diversità dei popoli. Trovo da sempre questa attitudine estremamente suggestiva, quasi un inno alla fine delle frontiere, quelle fisiche e soprattutto quelle che ci sono nella testa di ciascuno di noi».
[D.C.P. da Il Venerdì del 24.05.2024]
Immagine di copertina. Manifestazione filoeuropea in Georgia (da Il Venerdì)