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Salone del libro
Se i politici non leggono
di Paolo di Paolo – Da la Repubblica dell’11 maggio 2024
I leader politici vanno al Salone del libro, ma non parlano quasi mai di libri. Se passano dagli stand, li sfogliano, o magari (vedi Salvini) annusano platealmente la carta di quelli che hanno scritto loro. I leader politici non leggono, perché — come la gran parte della popolazione adulta — non hanno tempo. Hanno tempo però di scriverli o farseli scrivere.
Qualche volta postano o fanno postare sui social i libri che ricevono o che qualcuno acquista per loro. La verità è che, salvo rarissime eccezioni, sono poco interessati all’oggetto.
In molti di loro è rimasto un residuo di nausea scolastica, di insofferenza: d’altra parte, i libri pretendono concentrazione, esigono lo stesso tempo che esigevano secoli fa, mentre tutto il resto ha accelerato.
Di tanto i tanto, i leader politici si lasciano sfuggire frasi forse troppo sincere: non leggo un libro da tre anni; non ho letto ma leggerò i libri di questo premio.
Non leggo un romanzo da dieci anni, confessò candidamente Berlusconi.
È un peccato, verrebbe da dire: la gogna, in questi casi, è inutile e perfino ipocrita.
Semmai c’è da chiedersi perché, in tutti questi anni, ragionando con toni talvolta apocalittici sui lettori deboli o sui non lettori — e dando per scontato che avessero un certo profilo — non ci siamo mai chiesti quanto poco legga la classe politica, la classe dirigente. I ministri, i leader di partito, gli amministratori locali. I manager di azienda. Poco, pochissimo.
È un male? È un bene? È un dato.
Su cui però varrebbe la pena di riflettere: e non perché leggere renda automaticamente persone migliori, non è così, ma per una serie piuttosto fitta di ragioni non trascurabili.
Sarebbe quasi ridicolo enumerarle qui: fosse anche solo una questione legata alla “gestione della complessità” — la complessità del mondo, del reale — è indubitabile che qualche lettura in più offra o possa offrire qualche vantaggio. Di natura lessicale? Già varrebbe non poco.
Di natura intellettuale? Il termine ha da decenni qualcosa di insultante: sei un intellettuale! Sei un radical chic! Di natura morale? L’aggettivo è scivoloso.
E se da un lato è riduttivo pensare a una biblioteca come a un dispositivo pedagogico, è una forma di populismo deteriore pensare che dai libri non si impari niente. L’università della vita, come la chiamano i liquidatori del sapere, ha senza dubbio il suo peso, ma non è detto che basti.
Tanto meno per chi fa politica.
Per essere davvero efficace in un’azione di governo, un rappresentante politico non dovrebbe forse curare con costanza la propria formazione, alimentarla, aggiornarla?
E non dovrebbe pure tenere in allenamento quel “muscolo” mentale che rischia di atrofizzarsi — la capacità di immaginare?
E ancora: tenere vivo un rapporto con le parole — che non siano solo quelle logore, esauste, di una comunicazione superficiale e svuotata di senso, ridotta a slogan che si ripetono all’infinito.
Talvolta arrivo a pensare che, per quanto non sia strettamente pedagogica la funzione di una biblioteca, i libri buoni possano ispessire un argine contro il collasso morale: perché costringono a fare i conti con sé stessi, a interrogarsi sulle scelte, a rimettere a fuoco lo sguardo sull’altro, sugli altri, in qualche modo a contemplarli e a farli esistere quando spariscono — per cinismo, per distrazione — dal campo visivo.
All’Arena Robinson ieri lo scrittore israeliano Eshkol Nevo ha detto che per paradosso sente più essenziale scrivere e raccontare e leggere in tempi drammatici e di grande incertezza. Serve a non perdere mai di vista la realtà del prossimo, a riconoscerlo. A vederne la parte migliore.
[Di Paolo Di Paolo – Da la Repubblica dell’11 maggio 2024]
Immagine di copertina. Vignetta di Staino (da Il Foglio)