Scrittori

Michele Mari, una vecchia conoscenza

proposto da Sandro Russo

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Michele Mari lo conosciamo bene… Mai dirlo di uno scrittore, ma qualche motivazione la possiamo accampare per aver letto molti dei suoi libri – Verderame (2007) ci ha folgorato anni fa – e aver dato il nome di “Gruppo Cicoria” alla piccola conventicola di amici che si riuniscono periodicamente per finalità di lettura/scrittura (…e anche mangerecce ahinoi) dal titolo di un suo racconto breve, Cicoria matta, che era piaciuto a tutti (mai successo prima!)
Ci fa piacere pubblicare questa interessante intervista allo scrittore da il Venerdì di Repubblica della settimana scorsa, in occasione dell’uscita di un suo nuovo libro.

La copertina dell’ultimo libro di Mari. Locus desperatus (Einaudi, 136 pagine. 18 euro)

Intervista a Michele Mari.
Non si butta via niente
di Alberto Riva – Da il Venerdì di Repubblica del 26 aprile 2024

Un uomo difende da oscure minacce la sua casa e gli oggetti che ha accumulato in una vita. È il protagonista del nuovo Locus desperatus. E somiglia molto al suo autore.
Mio padre Enzo Mari era ultra-razionale. Io invece sono molto superstizioso

Di notte qualcuno ti fa un segno sulla porta di casa e poi un tizio che incontri sulle scale, un tal Asfragisto, ti informa che te ne devi andare e non puoi portarti via nulla. «Subentri». Dove? In un’altra casa, anche quella piena di roba altrui. L’autore dello sfregio non ha scelto un segno qualsiasi, bensì la crux desperationis con cui i filologi indicano, sui testi, «una lacuna non ricostruibile, un errore non emendabile».
Cosi la casa diviene un Locus desperatus, titolo del nuovo romanzo, edito da Einaudi, di Michele Mari, ultimo gran solitario della letteratura italiana, classe 1955, praticamente un caso unico di non-presenzialismo a dispetto del grande successo dei suoi romanzi e poesie, tra cui Di bestia in bestia, Verderame, Euridice aveva un cane, Cento poesie d’amore a Ladyhawke e Leggenda privata cui racconta il padre, il designer Enzo Mari, e la madre, la scrittrice e illustratrice Gabriella Ferrario (alias Iela Mari), lontana cugina di Dino Buzzati.
«Non ho un’esistenza sui social, è un fatto caratteriale. L’aspetto mondano-promozionale mi ha sempre sgomentato o infastidito» dice Mari nella sua nuova casa di Bergamo, dove vive da un anno.
«Alla morte di mio padre ho ereditato, come le mie sorelle, una quantità di oggetti, opere d’arte, scritti, disegni: avevo bisogno di più spazio e nulla mi tratteneva a Milano». Anche quest’ultimo romanzo è popolato di fantasmi e ultracorpi, feticci e rituali. Il protagonista (senza nome) è minacciato di sfratto da strani figuri («emissari loschi però squallidi, che non permettono neppure uno scontro epico») e lotta per salvare le cose di una vita, gli oggetti della vera esistenza di Michele Mari, come le targhette numerate degli attaccapanni dei minatori finite sulla copertina, e che in un altro suo libro, Asterusher (Corraini), lo scrittore ha fatto fotografare da Francesco Pernigo in una sorta di inventario privato, tra la casa di Milano e quella dei nonni a Nasca sul Lago Maggiore: il quadro elettrico Luce/Forza, la radice di mandragola, la locandina di Dracula, l’Omino Michelin.

Nell’articolo del Venerdì le foto degli oggetti sono tratte da
Asterusher. Autobiografia per feticci (Ed. Corraini; 2015)

Anche in questo libro tornano gli oggetti. Però questa volta in una battaglia per la sopravvivenza. Che potere hanno su di lei?
«Sono come amuleti. Ho sempre sentito il bisogno di appoggiarmi a certi portafortuna, al significato magico, predittivo di alcune cose, dei numeri, delle carte da gioco. Sono molto superstizioso. Nella mia famiglia, dominata dalla figura di mio padre, un uomo ultra-razionale, ho cercato di svicolare creandomi delle tane dove non vigesse sovrana la legge della ragione e del progetto, e ci fosse un po’ di magia, un po’ di paganesimo. L’idea, delirante, che le cose possano costituire alle fine un’armatura, un bunker, una protezione. Regredire alla condizione di un bambino che dispone i suoi soldatini».

Il libro è una forma di addio alla casa di Milano?
«Ci abitavo da quarant’anni, era diventata come una conchiglia satura, mi ci muovevo da contorsionista. Il trasloco ha avuto i connotati del lutto. Era lo studio medico di mio nonno materno. Ci ho vissuto dieci anni con la mia prima moglie, mi sono risposato o Roma, ho ri-divorziato e sono tornato a stare da solo a Milano, scendendo  a Roma per vedere mio figlio. Una vita decentrata e plurima».

Perché crux desperationis?
«Forse è un disperato grido di orgoglio, come se dicessi: sì lo so, son fatto male, la mia vita è un mezzo disastro, ma va bene così, andate al diavolo, queste sono le mie cose e me le tengo strette. È un’accettazione scorbutica dei propri limiti. L’attacco questa volta è stato respinto».

Da dove viene l’inevitabile vis comica della sua scrittura?
«Me lo hanno già detto per Leggenda privata. Non è intenzionale. Credo sia una forma istintiva di profilassi, una modalità decorosa ed elegante per raccontare cose che altrimenti sarebbero lagnose e che io tratto cogliendone un po’ l’aspetto grottesco. In ciò mi ha ispirato la letterature fantastica. Penso ad autori tragici e comici insieme. come E.T.A. Hoffmann, Gogol, Landolfi, Gadda, Gombrowicz. Scrivono di morte, lutto, angoscia a e alienazione, però sono divertentissimi».

Agli inizi veniva definito autore gotico. Ci si ritrova?
«Non mi dispiaceva per nulla. Capivo però che per certa parte della critica implicava un giudizio negativo. Quando ho esordito alla fine degli anni Ottanta eravamo in piena deriva tondelliana, un’ondata di nuovo realismo in chiave giovanilistica. Io venivo messo in un mazzetto insieme a Paola Capriolo, Marta Morazzoni, “scrittorl nostalgici”. Qualcuno scrisse: Michele Mari e Roberto Pazzi si preoccupano troppo di scrivere bene. Non capivo perché dovesse essere un problema. Non ho mai pensato a chi mi legge, lo dico senza presunzione né fanatismo».

La sua scrittura è un po’ gaddiana, se vogliamo; però ha detto di non amare gli scrittori pirotecnici tipo David Foster Wallace, è così?
«Sono autori in cui entra troppo massivamente il mondo, la società, i luoghi, le canzoni, la sessualità, la morale, la televisione, la censura, il tennis… Ho provato a leggere Infinite Jest e non ci sono riuscito. Non sono attratto dalla scrittura cumulativa e pirotecnica in quel senso. Quando vedo la fascetta con scritto “opera- mondo” io in genere mi tengo lontano. Non capisco l’ambizione totalizzante, prometeica di far stare tutto il mondo nella letteratura, che se Dio vuole è anche altro dal mondo. La letteratura è qualcosa di alchemico che prende alcuni elementi del mondo e li tratta a modo suo».

Questa sua mania per gli oggetti rimanda un po’ a suo padre, che di oggetti ne ha creati tanti. Che rapporto c’era tra voi?
«Stima e approvazione a distanza. Io che mi sono sempre fatto mille scrupoli, con sensi di colpa e inadeguatezza, per contro nello scrivere sentivo di essere all’altezza di uno dei suoi diktat: vai per la tua strada, fregatene di tutti! Ma dal punto di vista tecnico ho dovuto per forza distaccarmene: mio padre è uno per cui tutto partiva dal progetto, l’idea forte, verificata. Per lui era inconcepibile l’improvvisazione, roba da cialtroni. Quando da ragazzino disegnavo, magari cominciavo da un particolare, i baffi, il naso. E lui mi diceva: no, tu devi aver chiara l’idea delle proporzioni, tutto dettagliato. Io invece non pianifico, comincio da un particolare, da un capriccio. Non ho mai steso una scaletta in vita mia. È uno del motivi per cui ho avuto subito chiaro che non avrei mai potuto fare il designer sotto la sua ala».

Nei romanzo c’è un’urna un po’ magica con le ceneri di una madre. Però sembra che il protagonista riesca a distaccarsene. È il congedo definitivo da sua madre, scomparsa nel 2016?
«È un argomento delicato, rischioso. Di fatto, nella realtà, a parte due suppellettili, nella casa di Milano è rimasta ancora l’ urna con le sue ceneri. Con mia sorella Agostina vorremmo spargerle sulle montagne di Asiago, i luoghi che amava e dove andava con Dino Buzzati. La casa non l’ho venduta né affittata, è lì, vuota e la cosa mi consola».

Cosa di loro le appartiene, oltre e tutti questi metti?
«Esteriormente mi è quasi impossibile non identificarmi con mio padre, per l’ammirazione che nutro, il carattere, l’aspetto fisico. Dentro però mi sento molto più legato alla fragilità di mia madre; ho tutta una serie di debolezze, ansie, struggimenti, malinconie che mi vengono direttamente da lei».

Di tutti quei soldatini enumerati nel romanzo c’è qualcosa da cui si è separato?
«Nulla, solo il dente di un capodoglio, una vera zanna lunga mezzo metro. L’ho regalata a un amico».

[Intervista di Alberto Riva per il Venerdì di Repubblica]

Immagine di copertina (Getty images)
Poeta, scrittore, traduttore, docente di letteratura italiana. Michele Mari è nato a Milano nel 1955. Nell’articolo, alcuni oggetti della sua casa fotografati da Francesco Pernigo.

Il file .pdf dell’articolo, dal Venerdì di Repubblica, con le foto e l’impaginazione originale (tre pagine):
Intervista a Michele Mari da Il Venerdì 26.04.2024


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