di Francesco De Luca
“Ma… stanotte durmimmo c’u casatiello ind’u lietto?” Questa fu la spaventata espressione di Antonio per puro caso entrato in camera da letto, dove era evidente un montarozzo nel centro del letto. Sotto la coperta imbottita infatti stazionava un tegame con dentro l’impasto e, al di sotto, la copertina elettrica accesa. Tutto l’ordito serviva per dare calore all’impasto e promuoverne la lievitazione. “Stu casatiello nun cresce… mannaggia !” Gli altri quattro invece, lievitati a dovere, erano stati messi nel forno a cuocere. E l’odore si spandeva per le stanze.
Pasqua a Ponza è anche questo. Lì dove la tradizione viene rinverdita ogni anno, la Settimana Santa è scandita dalle usanze popolari.
Oggi i dolci pasquali si comprano nei negozi ma di solito a Ponza ogni famiglia produceva da sé i dolci per festeggiare la Pasqua. E chi non aveva il forno? Per costoro i fornai si mettevano a disposizione per accontentare la clientela.
E già, perché i dolci erano tanti. C’erano i casatielli, le pizze di grano e le pizze di pasta.
Ogni figlio aveva infatti diritto al suo casatiello, da portare in giorno di pasquetta nella scampagnata. Erano piccoli e rassicuravano il figlio di non fare brutta figura.
La pizza di grano, in verità, non era alla portata di tutti, tanto è vero che Antonio l’assaggiò per la prima volta a Roma, dove dimorava per studio. Da grandicello dunque, da adolescente, perché nella fanciullezza a casa sua erano i casatielli i dolci di cui si faceva più uso. Insieme alle pizze di pasta. Quelle dove l’ingrediente primo era la pasta, usata di solito per il brodo: i semini, le farfalline. Si impastavano in una soluzione dolce.
Insomma fra casatielli e pizze dolci ogni famiglia ne produceva una decina. Da aggiungervi anche la pizza rustica.
Temistocle, il fornaio, cadenzava gli incontri coi clienti. Fino al far del giorno cuoceva il pane e poi infornavano le pizze zia Olimpia, zia Lucia, la famiglia Corti, zia Angelina, zia Miliuccia e Ferminia.
Toccava alzarsi presto. I casatielli due giorni prima erano stati messi nei ruoti a ‘crescere’ ( lievitare ). Sopra un ripiano, sotto le coperte di lana e, ove fossero lenti a gonfiarsi, ci si intrufolava la borsa calda.
Proprio come Carmelina ha fatto con questo qui, questo messo sul letto, solo che ha utilizzato l’espediente della coperta elettrica.
“No, non ti preoccupare, nel letto stasera non ci sarà niente”. Ornella infatti viene, ne costata lo stato, fa una smorfia e lo pone nel forno.
I casatielli, manifestavano il ‘carattere’ della famiglia. Quelli di Clotina di solito erano ammazzaruti, ossia poco cresciuti e di pasta non morbida. Bassi e secchi. Quelli d’a sora d’u capitano venivano più friabili e con qualche buccia di arancio a dar profumo e sapore. Decisamente più dolci erano quelli di Rosaria.
Com’è che si conoscevano i sapori? Perché, soprattutto nella settimana detta dell’ Angelo, quella successiva alla settimana Santa, fra la scampagnata del ‘pascone’ gli incontri sull’aia fra i ragazzi del vicolo, le fette dei ‘casatielli’ circolavano abbondanti.
E dunque zia Clotina aveva tante galline e pertanto poteva disporre di più uova e la sua ricetta se ne avvantaggiava. La pasta del dolce stentava a lievitare. Ammazzaruti venivano, ossia bassi e duri. Buoni col latte.
A sora d’u capitano li faceva dolci perché era zitella e sperava di attirare la gola di qualche buon partito.
Intanto il casatiello messo nel forno da Carmelina sta inondando di profumo la cucina. “Madò… – dice la donna – famme mettere nu foglio ‘i carta da forno se no si brucia”.
E gli altri come sono venuti? E chi lo sa… sono ancora caldi. Sono venuti come al solito. Cioè? Cioè non troppo dolci e non troppo friabili. Ognuno segue la ricetta avuta in eredità e questa di Carmelina segue la tradizione della sua famiglia. D’altronde il casatiello, ovvero il “dolce di casa” non deve allettare tutti i palati ma soltanto quelli della casa. Che ormai sono abituati a quel sapore, e soddisfatti. Non sono come quelli comprati che, per venire incontro ai gusti di tutti, sono più morbidi, più dolci, più profumati, sono… dolci come tanti altri e privi del marchio della famiglia.
Questo, sembrava davvero una nota distintiva cui ci si teneva.
Antonio ricorda che, quando ritornava a Roma, dopo le vacanze pasquali, la madre, suo tramite, mandava il casatiello ai parenti che lo ospitavano. E ancora oggi si dona il casatiello come dolce particolare.
Carmelina corre in cucina. Cosa succede? Ha sentito un odore acre. Apre lo sportello, “no, niente di grave”. Spegne il forno e lo lascia socchiuso. Il profumo avvolge la casa e il pianerottolo. E’ soltanto un alito d’aria che trapassa, e dal naso va al cuore. Spiegando in modo semplice il complesso intreccio che compone l’animalità dell’uomo con la sua cultura.
Lo si poteva mangiare soltanto la domenica, dopo che il Cristo risorto aveva vinto la Morte.
Oggi no, oggi, dopo qualche ora lo si assaggia perché sono caduti i freni che imbrigliavano la vita del credente in Cristo. Oggi i freni non sono tollerati.
Epperò… questo casatiello mi sembra che abbia superato qualche limite. E’ tutto nero.
“S’è bruciato?”
“No, si è abbrustolito oltre il dovuto. Ha soltanto la faccia nera. Prima non voleva crescere e dopo s’è cotto troppo”. Un colpo basso, una ferita inattesa. E’ quello che ci si attende dal venerdì santo. Perché oggi è Venerdì Santo.