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Propongo questo articolo letto su la Repubblica di ieri, 21 marzo perché mi ha colpito e mi ha fatto pensare. Al di là della vicenda di cui riferisce.
A come l’etica non sia una parola vuota; a come la si possa tradire o, all’opposto, esaltare. Anche a come i serpeggiamenti del ‘ventennio’ (ovvero l’avvelenamento dei pozzi della moralità pubblica perseguito dal ‘berlusconismo’) si siano travasati e tengano banco, con ben altra presunzione e arroganza, nei tempi che stiamo vivendo. Ci ho trovato anche l’etica dell’amicizia, la difesa di un maestro di giornalismo il cui lavoro e esempio sono indimenticabili. Tutto questo nell’articolo di una colonna, su la Repubblica, a firma di Carlo Bonini – che è una lezione di giornalismo.
S. R.
Il caso
Notizie avvelenate
di Carlo Bonini
La violenza con cui Alessandro Sallusti, direttore de il Giornale ha aggredito ieri, nel suo editoriale, Repubblica, il suo giornalismo e Giuseppe D’Avanzo, una delle firme che ha contribuito a scrivere la storia di questo giornale e a definirne l’identità, non meriterebbe risposta. Non fosse altro perché non ne è degno chi, a distanza di tredici anni, si avventa sul lavoro di un uomo — il nostro fraterno amico Peppe — portato via da un infarto una mattina di luglio del 2011. E quindi nelle condizioni di non poter né replicare, né argomentare le ragioni per le quali nell’estate del 2010 era convinto, insieme a questo giornale e a una nutrita schiera di giornalisti di altre testate e parlamentari della destra che avevano deciso di separare i propri destini politici da Berlusconi, che l’inchiesta giornalistica de il Giornale sulla casa di Montecarlo dell’allora presidente della Camera Gianfranco Fini fosse intossicata e orientata dallo spin di Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio ed editore de il Giornale.
Né meriterebbe risposta l’avventurosa requisitoria che, sempre ieri mattina, con gli stessi argomenti, e in perfetta sintonia (lo squadrismo, anche quello di carta, si muove tradizionalmente in branco), impartiva Maurizio Belpietro su La Verità.
E tuttavia, di fronte a tanta indecenza non è possibile tacere. E non solo perché Repubblica non deve scusarsi di aver tredici anni fa creduto alla versione che di quella vicenda aveva fornito (e fornisce tutt’oggi nel processo in cui è imputato) Gianfranco Fini. Di essere cioè in quel lontano 2010 “certo” (oggi possiamo sicuramente dire a torto, come lui stesso ha riconosciuto) che la proprietà della casa di Montecarlo non fosse del cognato Giancarlo Tulliani. Ma perché Giuseppe D’Avanzo e Repubblica avevano ragione a leggere nelle cronache di allora del Giornale le impronte digitali di un’operazione di character assassination che aveva nell’allora presidente del Consiglio il suo mandante e, insieme, beneficiario politico.
E non perché lo diciamo noi, che del giornalismo di D’Avanzo siamo figli, ma perché lo dice un signore che i lettori meno giovani ricorderanno. E che sicuramente dice qualcosa al direttore del Giornale e a quello de La Verità: Valter Lavitola. Lo spiccia-faccende arruolato da Berlusconi nell’edificante operazione di compravendita di senatori della Repubblica e quindi king maker dell’operazione Fini-Montecarlo.
Nell’intervista, che leggete oggi nelle nostre pagine, Lavitola racconta cosa si mosse in quella storia. Chi ne fu l’architetto (Berlusconi). E chi le pedine. E dove e in quale consesso quell’operazione di kompromat in grado di inchiodare il “traditore” Fini venne pianificata e portata a termine.
Potremmo chiuderla qui. Ma faremmo un torto al giornalismo di Giuseppe D’Avanzo e a quello di Repubblica se non aggiungessimo una considerazione di cui la sconcia sortita di ieri è l’ennesima prova.
Tra le molte torsioni sperimentate con successo nel ventennio berlusconiano quella di maggior successo ha riguardato l’informazione e il suo rapporto con il potere.
In una democrazia che voglia essere tale non solo per autocertificazione alla stampa è affidato il ruolo cruciale di controllo della vita pubblica e dei poteri che la innervano.
La stampa — si dice — è il cane da guardia della nostra agorà.
Bene, forte del suo conflitto di interessi (presidente del Consiglio ed editore televisivo e della carta stampata), Berlusconi capovolge il modello e trasforma il giornalismo delle sue televisioni e dei suoi giornali in un nuovo animale a due teste: cane da salotto del potere e pitbull di chi a quel potere legittimamente si oppone. Siano avversari politici, redazioni non addomesticate o imprenditori disallineati.
È un format — appunto — che il giornalismo di Repubblica avvista e mette a nudo in quella fase terminale e putrescente del ventennio berlusconiano. E che regala pagine infami che Sallusti e Belpietro non avranno certo dimenticato, perché cucinate nella macchina della disinformazione e del fango di cui erano parte. Come il caso Boffo, il caso Marrazzo o la fuffa rivangata su Telekom Serbia da un truffatore di nome Igor Marini.
Bene, quel format è oggi riproposto dalla destra al potere con la stessa spregiudicatezza, ma, se possibile, persino con maggiore violenza. E — guarda un po’ — per mano della stessa compagnia di giro di allora, premiata nel frattempo con ruoli e incarichi di maggior prestigio nei giornali e nelle tv. E con il vantaggio di non dover neppure più fare finta di essere o definirsi “liberali”.
Avevano Mediaset, si sono mangiati la Rai, stanno per fagocitare la seconda agenzia di stampa del Paese — l’Agi — e, ogni mattina, dalle colonne di Libero, il Giornale, La Verità, Il Tempo, distribuiscono le loro bastonature e olio di ricino su chi si ostina a fare quella cosa di cui si riempiono la bocca pur avendo smesso di frequentarla da tempo: un giornalismo libero.
[Di Carlo Bonini, da la Repubblica di ieri, 21 marzo 2024]