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Bravo Vincenzo Ambrosino, che pone finalmente in luce il problema dei problemi, e cioè la partecipazione attiva dei cittadini alle scelte che li riguardano, a Ponza e ovunque altrove (leggi qui).
“Il privato è brutto e cattivo” è una generalizzazione, come “Il pubblico è inefficiente e corrotto”: sono spesso vere entrambe, ma non possiamo sentirci condannati a vivere questo contesto.
Dobbiamo, per dovere civile e per la nostra sopravvivenza, ammettere ed impegnarci affinché possa esistere una pubblica amministrazione in grado di tutelare davvero il pubblico interesse; e ,d’altra parte, che vi siano dei privati capaci e decisi ad applicare l’art.41 della nostra Costituzione:
“L’iniziativa economica privata è libera
Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali “
Salute, ambiente, utilità sociale: questi i criteri da rispettare.
E ritorniamo al problema di partenza: la partecipazione attiva dei cittadini, che propongano e controllino ciò che incide sulle loro vite.
Voglio raccontare due storie, da “privato”: brutto finché volete, ma cattivo proprio no (e, a proposito di avvoltoi, di colombe, sull’isola, ne ho incontrate davvero poche…)
Storia n° 1
A dicembre 1999 aprimmo a Parigi, in pieno centro, Bio.it, una struttura concepita per la promozione, in Italia e all’estero, del prodotto biologico italiano, per conto di un consorzio di produttori biologici campani: doveva funzionare da punto di degustazione, quindi ristorante, da base per la forza vendite e come mezzo di comunicazione, per il mercato internazionale – Parigi è una vetrina internazionale – e italiano, perché gli Italiani adorano scoprire le cose a Parigi.
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Fu un grande successo: stava scoppiando la nevrosi della “mucca pazza”, e questo aiutò; poi la bravura e gentilezza del personale ci procurarono tre articoli gratuiti su “Elle”, in gennaio , febbraio e marzo e il passaparola fece il resto.
Fecero capolino Dustin Hoffmann, Polansky, Sophie Marceau e molti altri: i fatturati raggiunsero rapidamente quelli di un locale ben avviato, vincemmo premi ed altre amenità.
Per molte edizioni, Bio.it fu il format del ristorante del Biofach di Norimberga, la più importante fiera europea del settore biologico.
Avemmo successo perché l’idea era buona, i produttori la sostennero, con l’aiuto della Camera di Commercio di Salerno, il progetto di struttura era buono e fu ben realizzato e affrontammo per primi la questione della diffusione del biologico, in un mondo che lo richiedeva.
Poco distante da noi, in fondo alla Rue de Buci, a St. Germain, comparve un piccolo punto vendita chiamato “Oliviers &Co”: in vetrina un albero di olivo e lattine quadrate, color verde e oro, di olio di oliva di tutte le origini e tipologie : Francia e Italia, ovviamente, ma anche Tunisia, Turchia, Marocco, Grecia, Spagna….
Non so che fine abbia fatto, ma per me fu un’illuminazione: come avevamo fatto per il biologico, c’era un’opportunità da cogliere per il mondo mediterraneo e, soprattutto, per l’universo insulare mediterraneo, inteso come piccole isole, naturalmente.
Studiammo un marchio, ma poi la vita (e soprattutto le due figlie) ci portò su altre strade: fino a quando non siamo arrivati a Ponza.
“Ponzesi per scelta” è un buon punto di partenza, lo abbiamo notato subito: costruire / inventare un’identità tipica di prodotto è una buona idea.
Tuttavia, Ponza potrebbe permettersi qualche ambizione in più.
Le isole del mediterraneo, che frequento con passione dal 1982, anno in cui comprai la mia prima barca a vela, si offrono al turismo ognuna con la sua identità, più o meno marcata, più o meno curata, ma tutte nell’ambito del proprio universo: naturalmente, nessuna di esse è in grado di offrire una gamma completa di prodotti, com’è logico.
Se invece volessimo sviluppare un marchio di identità insulare mediterranea, la gamma dovrebbe invece essere ampia, se non completa: ceramiche, gioielli, abbigliamento, conserve di pesce, vino, olive e quant’altro abbia senso e coerenza, perfino la musealità.
Si tratta di immaginare quello che, in gergo, si chiama “marchio ombrello”, cioè un marchio declinato in prodotti di diverse tipologie, ma coerenti tra di loro.
Ho fatto questo lavoro nella seconda metà degli anni ’80, per un famoso marchio internazionale: mi sono ritrovato a comprare, al mercato delle pulci di Parigi, un porta-abiti da caccia di Vuitton dell’inizio del ‘900 – che ho ancora – poi utilizzato, come ispirazione, da una squadra di modellisti, che all’epoca lavorava per Mandarina Duck, a Perugia, per poi inventare gli accessori di un marchio americano… è un lavoro creativo e divertente, ma che deve essere condotto in modo rigoroso.
Quello che occorre progettare è “la testa”: una struttura di ricerca e sviluppo e marketing, che in primo luogo stabilisca le alleanze con altre realtà insulari e poi affronti il tema della strategia di marchio: quali tipologie merceologiche, quale posizionamento di prezzo, quali progettisti, quali zone di produzione.
Ad esempio, ad Anzio c’è un istituto professionale specializzato in gioielleria, dotato di stampanti 3D per lo sviluppo dei prototipi….e così via per le altre tipologie di prodotto.
Ponza dovrebbe immaginare una cosa del genere.
Non solo perché rappresenterebbe una vetrina importante, ma anche perché, tra i suoi abitanti e/o frequentatori, potrebbe scoprire competenze che non immagina e che, probabilmente, darebbero volentieri una mano molto qualificata.
Ma due cose sono indispensabili: occorre un’amministrazione locale che appoggi il progetto, e due ragazzi come Martina e Carmine che se ne facciano promotori.
Poi le competenze, i supporti e, al limite, anche il finanziamento dello start up, si trovano…
[Due storie per Vincenzo Ambrosino. 1. Continua]