Da Il Manifesto
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Cultura. Into the wild /2
Il caso dell’orsa JJ4 e il suo contrastato rapporto con l’altra specie – quella umana – ha dato l’avvio a questa serie di pagine culturali che indagano la relazione con il selvatico da diverse prospettive. C’è quella «reale» (che comunque sconfina nell’immaginario, come il puma di cui raccontava l’articolo precedente) e quella della finzione letteraria o storie dai tratti leggendari: dalle fiabe alla scoperta (spesso non veritiera) dei «bambini delle foreste», alle simbologie risvegliate dai lupi alle porte della città, passando – in questo articolo – per l’intima familiarità con la selva dello scrittore uruguayano Quiroga. E poi ci sono le orse di Artemide, i meravigliosi incontri sottomarini, il desiderio di tornare «indigeni», l’empatia con animali e le fantasie equine di Turgenev a Tolstoj. Senza dimenticare le commistioni di uomini e maiali irlandesi e l’utopia vegetale di riunire diversi mondi in un unico giardino assai «indisciplinato».
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Il Manifesto. Cultura
Quiroga e la questione sociale della selva
di Francesca Lazzarato – Da Il Manifesto del 13 agosto 2023
Lo scrittore uruguayano, che nel 1909 si stabilì nella provincia di Misiones, forastica zona di frontiera tra Argentina, Brasile e Paraguay, mette al centro delle sue storie l’intero regno animale, passando per tutta la scala evolutiva e attribuendo spesso (ma non sempre) a insetti, pesci, rettili, uccelli e mammiferi, atteggiamenti, pensieri e caratteristiche umane
Horacio Quiroga a Misiones negli anni Trenta
Gabriel Benincasa è un giovane contabile di temperamento quanto mai prudente, almeno fino al giorno in cui acquista un paio di stivali che insinuano in lui il tarlo dell’avventura, purché breve e amena. Gabriel, in effetti, vuole soltanto «fare un giretto» nella selva di Misiones, dove il suo padrino commercia in legname, per provare qualche inedito brivido in un ambiente sconosciuto e selvaggio. Ed eccolo risalire in battello il Paranà, badando a non insudiciarsi gli stivali, diretto in un luogo i cui pericoli gli sembrano pieni di fascino, tra uccelli favolosi, animali bizzarri e belve feroci che, Gabriel non ne dubita, un buon Winchester saprà tenere a bada.
Comincia così il racconto di Horacio Quiroga Il miele selvatico, pubblicato nel 1917: una storia crudele e insieme ironica, perché il contabile, che penetra nel folto col piglio spensierato di un turista fiero del proprio equipaggiamento, dopo aver saccheggiato un tronco cavo pieno di miele resterà paralizzato da quella leccornia, elaborata da certe piccole api brune a partire da pollini con proprietà narcotiche. Ci vorranno pochi secondi perché un fiume di formiche carnivore (note col nome di corrección, ovvero castigo) ricopra il suo corpo inerte, spolpandolo fino a lasciare solo le ossa, gli abiti e gli inattaccabili stivali.
Quiroga, che dopo un viaggio nella provincia di Misiones (selvaggia zona di frontiera compresa tra Argentina, Brasile e Paraguay) aveva comprato laggiù qualche ettaro di terreno e nel 1909 vi si era si era stabilito con la famiglia, espone nelle poche pagine di Il miele selvatico una concezione della natura caratteristica della sua opera e presente in buona parte degli oltre duecento racconti che ci ha lasciato. Per lo scrittore uruguayano, che a Misiones aveva trovato uno spazio di vita e insieme la materia della propria letteratura, l’irrispettosa intrusione dell’essere umano e il suo comportamento predatorio segnano la rottura di un equilibrio che la natura tende a ristabilire, usando spietatamente i propri strumenti di difesa e finendo sempre per prevalere.
A soccombere non sono soltanto coloro che, come Gabriel, considerano la foresta un parco giochi a loro disposizione, ma anche coloni venuti da lontano e ignari di quello che li aspetta, avventurieri e proscritti in cerca di rifugio e, ovviamente, la torma dei miserabili mensú – i lavoratori «a mese» – impegnati nella distruzione delle risorse naturali a favore di imprese «che avrebbero continuato a prosperare finché la selva avesse avuto alberi da abbattere e uomini da dissanguare», scrive Juan Carlos Onetti, grande ammiratore di Quiroga, ricordandolo in occasione del cinquantesimo anniversario della morte.
La denuncia di quella che lo scrittore uruguayano chiamava «la questione sociale» della selva, è presente in alcuni suoi straordinari racconti, il cui tema principale resta però il confronto con la natura, che mette a nudo fragilità, terrori e ambizioni degli esseri umani, oltre a una crudeltà esercitata contro altri uomini, certo, ma soprattutto contro animali di ogni genere. La ricca fauna americana è, nella prosa di Quiroga, onnipresente e ineludibile: l’autore la descrive con la minuzia di chi l’ha lungamente osservata e le è vissuto accanto (non è difficile trovare punti di contatto tra lui e il suo contemporaneo William Henry Hudson, gringo cresciuto in Argentina e grande naturalista con vocazione di scrittore), consapevole che nessun animale uccide per puro piacere, per ignoranza o per profitto, ma solo per sopravvivere e per difendersi.
In I cacciatori di ratti, per esempio, Quiroga manda in scena due coppie, una composta da velenosissimi serpenti cascabel, l’altra da coloni arrivati dall’Europa del nord con il loro bambino, che costruiscono una casa e dissodano un campo ai bordi della foresta, là dove i rettili vivono da sempre. I serpenti, che osservano gli umani con curiosità e prudenza, frequentano in segreto la casa per dare la caccia ai ratti, finché l’uomo sorprende uno di loro, il maschio, e lo decapita con un colpo di zappa.
Sarà la femmina, che ne ha ritrovato i resti il giorno dopo, a uccidere poi il bambino della coppia che le si è avvicinato («Sentì dopo un po’ un rumore di passi – la Morte –. Pensò di non avere il tempo di fuggire e si preparò con tutta la sua energia vitale alla difesa»), convinta che stia per massacrarla, com’è accaduto al compagno. La morte del bambino non è una vendetta, non c’è colpa né castigo. Il narratore, impassibile, non propende per l’uomo o per l’animale, ma li mette sullo stesso piano, raccontando la storia dal punto di vista dei serpenti e animalizzando il bambino, «un orsacchiotto bianco, grasso e biondo», cha andava su e giù con passo da anatroccolo.
Racconto dopo racconto, Quiroga mette al centro delle sue storie l’intero regno animale, passando per tutta la scala evolutiva e attribuendo spesso (ma non sempre) a insetti, pesci, rettili, uccelli e mammiferi, atteggiamenti, pensieri e caratteristiche umane. L’artificio antropomorfico è utilizzato, in particolare, nei Cuentos de la selva para los niños (1918) che scrisse per i suoi figli (storie drammatiche ma liete, non sprovviste di ottimismo, comicità e finali felici, in cui il rapporto tra uomini e animali si fonda su amicizia, riconoscenza e collaborazione), ma è presente anche in testi destinati a un pubblico di lettori adulti, quali Anaconda e Il ritorno di Anaconda (quest’ultimo recentemente riproposto nella raccolta Gli esiliati, Bompiani 2022, nella magnifica traduzione di Ilide Carmignani). Che parlino o pensino in termini umani, tuttavia, gli animali restano tali e sono ben lontani dal trasformarsi in creature semidivine come nel mito, in aiutanti magici o in principi stregati come nella fiaba e nella letteratura fantastica, o in exempla morali come nella favola esopiana.
A differenza di Kipling – cui viene spesso paragonato, nonostante le notevolissime differenze identitarie e ideologiche – Quiroga non fa del mondo animale un puro travestimento per i vizi e le virtù umane, né impone alle creature della foresta gerarchie ben precise, in cui ognuno occupa il luogo che gli compete «per natura» e l’uomo è signore e padrone.
L’uruguayano, infatti, non si sente come lo scrittore inglese il portavoce di un impero «civilizzatore» e non è per nulla certo della superiorità umana di fronte a una natura da addomesticare, tanto che, notava Dario Puccini in una sua bella prefazione («Racconti d’amore, di follia e di morte», Editori Riuniti, 1987), «contrappone, in una visione di struggling for life e di competizione vitale e darwiniana, il mondo degli animali e la società artefatta, alienata, inutilmente ma strutturalmente violenta degli uomini», senza per questo suggerire un idilliaco e idealizzato «ritorno alla natura».
L’intima familiarità con la selva, «bestia verde» dove la morte è sempre in agguato, ha insomma consentito a Quiroga di farne un personaggio spoglio di ogni esotismo e ogni retorica, e di perseguire, mentre molti guardavano alla letteratura europea come un modello da imitare, linguaggi e tematiche profondamente «americani», anticipando per di più temi nei quali, oggi, possiamo riconoscerci.
[Into the Wild/2 – Continua]