proposto da Sandro Russo
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Qualche settimana fa abbiamo scritto del nuovo libro di Erri De Luca dalla presentazione fatta alla Feltrinelli di Napoli (leggi qui). Ora il libro ci è capitato tra le mani.
Già il titolo ha suscitato vivaci discussioni, la mattina che è stato proposto come argomento tra gli scambi per whatsapp.
Si sono fatto due fazioni: chi riteneva che “parla’ a schiovere” significasse parlare/interpretare le cose con malevolenza, con acrimonia. Altri pensavano che si intendesse “senza cognizione di causa” praticamente “parlare senza sapere di cosa si sta parlando”. Mentre la proposta di Erri De Luca è schivare (per esempio un argomento, un tema…). Su queste diverse interpretazioni abbiamo passato la mattinata.
Comunque delle differenze non solo semantiche ma anche fonetiche tra il napoletano e il ponzese (di derivazione ischitana e torrese) abbiamo già scritto e continueremo a farlo…
Qui di seguito la prefazione di Erri De Luca e una paginetta dal libro.
Prefazione
Le parole di un vocabolario sono dette: voci. Qui mancano precisamente quelle, insieme ai toni trasmessi dal napoletano. Voci e toni decidevano del significato, tragico o ironico, benevolo o ingiurioso, completato da mosse di accompagnamento. “Che bbuo?”, che vuoi?, poteva essere aggressivo o fatalistico rinunciatario, precisato dalla mano con le dita raccolte a “cuppetiello”. Se agitate verticalmente servono da intimidazione, invece orizzontalmente esprimono rassegnazione. In sede di una presentazione orale potrò meglio precisare i due gesti.
Questo vocabolario napoletano è ridotto a scrittura, formula che ha la vana pretesa di durare. Non è un omaggio a Napoli che non ne ha bisogno, dotata di autosufficienza. Napoli basta a se stessa. Nelle peggiori mancanze si arrangiava caparbia, indifferente, come i bambini che imparano a giocare a “mazz’e pìvoze”, cioè con due bastoncini, quasi niente.
Le parole qui raccolte sono effetti personali, calli che hanno resistito sotto il guanto dell’italiano.
Ilnapoletano è un utensile impugnato a mano nuda. Non sta sulla punta della lingua ma nel palmo. Lo maneggio con me stesso, lo canto, mi dico versi e proverbi, lo adopero da sprone e da scoraggiamento, per una collera, per un complimento.
Le pareti della casa che abito hanno assorbito le chiacchierate con mia madre che malvolentieri ha abitato tra i campi con me per diciannove anni dopo la morte di suo marito, mio padre.
Le mancava la vista sul vulcano, le cui ceneri aveva spazzato per giorni da terrazzi e balconi durante l’eruzione del ’44. Le mancava “’o paese mio”. In ognuno di questi vocaboli c’è per me la sua voce. Mi è lingua madre il napoletano perché l’ho parlato con lei, e di più l’ho ascoltato da lei.
L’italiano usato in queste pagine per raccontare è vocabolario aggiunto, adatto alla mia indole appartata. Lingua lenta di parole piane, è opposta all’altra sbrigativa, di parole tronche.
L’italiano stava per me nei libri, silenzioso, spazioso, di entroterra.
Il napoletano era portuale, carico di salsedine. Dove il napoletano scortica, l’italiano allevia. Mi ci affezionai per riparo.
Fuori soffiava da ogni punto cardinale il napoletano, dentro la cameretta dei libri c’era a forma d’insenatura l’italiano. Grazie allo spessore degli scaffali imbacuccava pure contro il freddo, ‘o fridd’.
Senza coincidere si sono dati il cambio, escludendosi. Ma in queste pagine vanno per la sola volta sottobraccio.
Qui c’è per me la convergenza di due fiumi, nessuno affluente dell’altro
’A copp’ abbascio
Da sopra a sotto, indicazione che precisa il moto del verbo cadere, in napoletano care’. All’indicativo presente suona così: i car’, tu car’, isso car’, nuie carìmm’, vuie carìte, loro càrono.
Una volta, su un aereo di una compagnia a basso costo l’assistente di cabina si presentò al microfono dicendo: “Il mio nome è Karìm”.
Commentai a bassa voce: “Che bella notizia”. Un altro passeggero aggiunse: “’A copp’ abbascio”. Un altro ancora disse: “Car’ tu sulo”.
Per chi non è pratico, Karìm suona in napoletano carìmm’, cadiamo.
L’assistente di volo avrebbe dovuto accertarsi che a bordo non ci fossero napoletani, prima di esclamare il suo nome a decollo avvenuto.
Faccio un po’ di alpinismo, attività in cui è proibito cadere. Un grande specialista, morto in montagna, disse che se uno precipita, passa il resto della vita, cioè pochi secondi in tutto, a cadere.
A Napoli era difficile cadere in mezzo alla folla che gremiva le strade. Ci si poteva sempre appoggiare a qualcuno, e in caso di sconocchiamento, cioè di cedimento degli arti inferiori, si veniva subito sorretti.
Ora in città c’è meno densità abitativa. Se uno cade si deve alzare da solo. Si uno car’, s’adda aiza’ isso sulo.
Sandro Russo
21 Dicembre 2023 at 21:36
La mia formazione è stata felicemente multiculturale (nel suo piccolo), con un padre di Cassino e una madre di Ponza: mio fratello e io passavamo nove mesi a Cassino (scuole incluse) e tre mesi estivi pieni sull’isola, a casa dei nonni e delle zie.
In una affettuosa concordia tra i miei genitori, i dissidi linguistici sono stati il pepe della mia infanzia/adolescenza; entrambi combattivi nel difendere le rispettive specificità.
E anche per me (come per Erri De Luca) la lingua madre è stata il ponzese (come pure i sapori e la cucina). Mia madre non ha mai fatto il minimo sforzo di integrazione linguistica [a parte che il ciociaro (cassinate o cassinese) è piuttosto brutto, se comparato con il napoletano]. Ricordo ancora i battibecchi, su alcune parole in particolare, cvome quando per accendere il fuoco – stavamo in campagna a 3 Km dalla città e avevamo il camino – si usavano i sarmenti (il residuo della potatura delle viti).
– I pennecìll’… i pennecìll’… – mio padre sfotteva mia madre.
– E no, so’ meglio le salemènta, sennò, come li chiamate voi!
E si davano la voce l’un l’altra: Salemènta salemènta… Pennecìll’, pennecìll’…
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P.S. – A proposito del gustoso aneddoto raccontato da Erri De Luca volevo dire che un ponzese non avrebbe notato l’assonanza perchè Karìm, inteso in napoletano come carìmm’ (cadiamo), in ponzese si dice cadimm’.