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Il 17 dicembre del 1973 a Ponza muore don Luigi Maria Dies. Per noi ‘u paricchiano. Per noi chi? Per i fedeli della parrocchia SS. Silverio e Domitilla nell’isola di Ponza, nati nel dopoguerra.
Aveva già cominciato a inquadrare la gioventù isolana negli anni seguenti alla sua venuta a Ponza ( 1939 ). Il cancelliere Giosuè Coppa, mio fratello Aniello, i cugini Silverio e Cesare, Peppino di Monaco, Ninando, Silverio bersagliere, Aniello Bosso, Ciccillo Costanzo, Giuseppe De Luca, essi, di una generazione precedente alla mia, già erano stati attratti dal fervore delle iniziative promosse dal giovane parroco ( 27 anni ). I nati negli anni, dal ‘46 in poi, godettero però dell’atmosfera più distesa del dopoguerra. Più distesa politicamente ma più febbrile per dinamismo. Fu questa generazione a godere della massima influenza del parroco sulla gioventù, e ad esserne influenzata.
Questo mio ricordo sarà infarcito da aspetti personali e non. Ha diversi scopi. Uno è quello personale di riconoscenza nei confronti di don Luigi; un altro è quello di ricordare ai concittadini una persona che ebbe un’ influenza determinante nelle vicende e nella cultura di Ponza. Coi suoi difetti ed errori.
Ne parlerò perciò con l’entusiasmo del ragazzo e con la ponderazione del settantenne.
Noi ragazzi fummo travolti dal carisma del parroco. Mente fervida, solida erudizione, animo pronto, dedizione totale. La nostra parrocchia in quegli anni vantò iscrizioni alla Gioventù Cattolica più di ogni altra nella diocesi di Gaeta. Sia maschile che femminile. Teatro, canto, ed iniziative collaterali… da Oratorio… rendevano attraente e partecipata la presenza in parrocchia.
Frotte di giovani, di ragazzi e di bambini animavano la sacrestia e la sala parrocchiale. Attratti da iniziative coinvolgenti, non banali, soddisfacenti.
Non fu per questo che diventai chierichetto. A setacciare bene i ricordi, oggi, ‘u paricchiano mi conquistò perché i riti religiosi li avvolgeva di un’ aura serafica, ultraterrena, da sogno. Il suo muoversi sull’altare, il cerimoniale pomposo, colorato, cantato, incensato, mi travolsero. Al punto che in essi, infantilmente, individuai il sacro. Rimasi irretito da quella dimensione per me sovrasensibile, e mi piaceva restarci intrappolato. Amavo il gregoriano, amavo il latino, i gesti studiati, le preghiere cantate. E che dire dell’eloquio di don Luigi: vibrante, forte, mellifluo, fondato nei testi. Anche quello mi trovava imbambolato, catturato.
Non solo l’atmosfera ieratica della chiesa mi colpì ma anche la considerazione che assunsi presso la comunità dei fedeli. Per le donne di chiesa ero un punto di riferimento, per i compagni un ‘privilegiato’.
Don Luigi era un uomo di parte. Tradizionalista, e perciò democristiano. Così come lo era l’uomo politico più influente a Ponza: il dottore Sandolo Francesco. Procedevano non in sintonia, per lo stesso fine. I due avevano personalità individualistiche. Si tenevano a bada reciprocamente. Anche se Sandolo non sconfinava nel religioso mentre don Luigi si portava nel politico con il peso della sua valenza. Negli anni, dai ‘40 ai ‘60, don Luigi ingrandì la chiesa, istituì un Orfanotrofio a carattere regionale, una Colonia Marina altrettanto regionale, costruì la Chiesetta della Madonna della Civita ai piedi del monte Guardia per arricchire la devozione religiosa isolana, rinsaldò il legame con la colonia dei ponzesi emigrati in America. E contemporaneamente diede impulso alla cultura isolana con libri di Storia, di Narrativa, con riti religiosi marcati di unicità.
Qui devo lasciare l’abito del cronista e lasciarmi andare alla passione. Giacché intrisi di massiccia passionalità sono i canti con cui impreziosiva le festività dell’Immacolata Concezione, del Natale, della Quaresima.
Don Luigi suonava l’armonium, aveva voce tenorile ma soprattutto spronava alla coralità. Di lui ho scritto (nel decennale della morte): ha dato alla voce un canto. Perché noi si pregava cantando. Non le solite, trite, melodie. Bensì le sue. Tutte corali, tutte emotivamente coinvolgenti. Uniche.
Siamo rimasti tutti avvinghiati a quella catena di melodie che l’età non disperde nella dimenticanza. Siamo stati talmente imprigionati che sono state imposte a tutti i parroci venuti dopo di lui.
L’ho detto impersonalmente. Non sono stati imposti, li abbiamo imposti. Noi chi? Noi… i giuvene d’ a Mmaculata. Ci eravamo tutti. Con situazioni, problemi, fedi e inclinazioni diversi.
Ho scritto di lui: ha dato alla giovinezza un senso. Lo rivendico: noi abbiamo palpitato all’unisono. Per tutti noi la giovinezza ha significato dedizione e purezza.
Poi si cresce, le situazioni mutano, i problemi pure, e ciascuno ha percorso la strada che ha voluto o che gli è capitata.
Ho scritto di lui: ha dato alla fede un volto. E quel volto, dolce e proteso al cielo della Immacolata, ancora emoziona. E se lo fa a me, che sono un agnostico convinto, tanto più riesce nell’animo dei miei compagni. Coi quali condividiamo un sussulto e un pianto allorché si intona Immobile sul polo del mio cuore. Con Franco Schiano (che il Signore lo delizi), con Antonio, con Luigi, con Gianfranco, Aniello, Silverio Anello, Tonino, Vittorio, con Biagino e Gaetano (siano col Signore), ci guardiamo e la commozione prevale.
Merito di don Luigi che ha depositato in noi i germi di una sensibilità che unisce gli uomini e li affratella.
I miei capelli sono incanutiti, lo spirito infiacchito ma la riconoscenza non scema. Per noi don Luigi la merita tutta.
Non è una santificazione. E’ l’attestazione della nostra esperienza che spero diventerà memoria collettiva.