Attualità

Per Giulia, per Elena

di Enzo Di Giovanni

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Non si sa più cosa dire della vicenda che da giorni impazza sulle reti Rai, sui social, sui giornali.
Cosa mettere a fuoco, come passare al setaccio le mille voci tra cronaca e riflessione? Inevitabilmente si fa strada ciò che colpisce, che tocca i sentimenti e la ragione, all’unisono.
E non si può non partire da Elena, la sorella di Giulia.

Elena e Giulia: due ragazze come tante, di cui nulla avremmo mai saputo –  e mai avremmo voluto sapere – che non dimenticheremo facilmente.

Giulia, brutalizzata con violenza inaudita e buttata via come un sacco di abiti usati mentre stava per diventare più Giulia, più libera, più autonoma, come scrive Michele Serra nella sua “Amaca” (leggi qui, in Commenti).

Elena che non si limita a bucare lo schermo: lo rompe, manda in frantumi la banalizzazione dell’orrore, della sofferenza inconsolabile.
Non piange, non geme, ma parla. Una voce che è un sussurro urlato, a dire cose che fanno a cazzotti con l’immagine fragile di una ragazza di vent’anni, cose che una parte del paese ha bisogno di sentire ed un’altra, che le ascolta con quel timore, che si ammanta di fastidio.

E’ divisiva, Elena.
Dice che l’ex fidanzato della sorella non è un mostro: non ci concede questa visione rassicurante. Non urla, non chiede la pena di morte, né di “gettare via la chiave”. Non ci sono mostri, i mostri non esistono se non nella mente di chi li costruisce per sentirsi innocente, per potersi sentire altro.

Ma da cosa dovremmo discostarci, nell’atto di accusa di Elena?

Filippo è figlio del nostro presente, un ragazzo come tanti, di una famiglia per bene. Non ci sono parole di odio del padre di Giulia verso l’altra famiglia; il padre di Filippo a sua volta non cerca giustificazioni, ammette di non riuscire comunque a non amare il figlio ma non ha parole per quanto successo, partecipa in disparte al dolore di una comunità, scende in piazza con pudore, vergogna, ma c’è. Cerca la gogna ma non la trova, proprio perché non fa parte di questa narrazione, di questa storia che non è una storia.
Per tornare all’Amaca di Serra: a Filippo non sapremmo cosa dirgli. Ed in questa frase tristissima c’è tutto il vuoto che avvolge, unico protagonista, unico vero mostro.

E’ divisiva Elena, dicevamo.
Perché c’è una parte del paese che non riesce, non può accettare una storia così, una piccola storia fragile, una piccola storia ignobile”.

Quella parte del paese che vede il male sempre oltre, innocentista per sé, giustizialista per gli altri: i migranti che vengono tutti a delinquere, i giovani bamboccioni che non hanno voglia di lavorare, le ragazze violentate perché in fondo se la sono cercata, e il vaccino, e le scie chimiche, e la famiglia tradizionale, e il crocefisso nelle scuole, e la sostituzione etnica.

A questa parte del paese non puoi parlare di patriarcato. Sono quelli che magari hanno visto anche il film di Paola Cortellesi, e magari gli è anche piaciuto, ma solo fino a quando l’intreccio finale non si è poi risolto non nella fuga amorosa e consolatoria, ma nel voto, nella costruzione di una Italia che non c’è, non c’è ancora.

Ne ho sentiti tanti di commenti del genere: bel film, ma perché finisce in quel modo? Perché Dalia non ha avuto il coraggio di scappare con il suo amore giovanile?

La risposta dovrebbe essere semplice; perché il vero coraggio è restare per costruire un paese migliore, perché in quel paese, uscito fuori dagli orrori del fascismo, c’era ancora il delitto d’onore, ed il reato di abbandono del tetto coniugale.

Ma evidentemente non è così semplice, a giudicare da un certo coro sdegnoso che si sta alzando in queste ore.
Abbiamo persino un paladino: un certo Valdegamberi, consigliere regionale in quota Lega del Veneto che non potendo accettare la versione di Elena, ne ha costruita un’altra partendo dalla felpa (sic!) indossata durante l’intervista della ragazza che raffigura immagini demoniache.

Il brand è Thrasher, molto in voga tra gli amanti dello skateboard, che cura anche una rivista del settore, oltre a vari gadget.

Flame Felpa con Cappuccio

Partendo da questa che dovrebbe essere una banalissima nota di costume, al più adatta ad un rotocalco pomeridiano, e comunque decisamente poco adatta al dramma a cui è collocata, il nostro eroe ha imbastito una narrazione che partendo da una felpa arriva alle messe nere, all’accusa di satanismo. Il passaggio successivo che sta germogliando è che magari Giulia sarà stata sacrificata in un rituale satanico di cui la stessa sorella è complice…

E’ una costruzione ben collaudata che abbiamo già visto innumerevoli volte: inventarsi di sana pianta, per fini propagandistici, un racconto che suoni credibile partendo da una menzogna, o dalla distorsione della realtà.

Ed ecco che, magicamente, abbiamo spostato l’asticella: dalla minigonna, simbolo di “sì, vabbè, l’hanno stuprata, ma in fondo se l’è andata a cercare!”, ai jeans attillati che “sì, sono difficili da togliere, ma modellano il corpo, fanno vedere le curve, per cui…”, finendo alle felpe che “non fanno vedere niente, ma c’è sicuramente sotto qualcosa…”

Perché il mostro deve esserci e non trovandolo bisogna crearlo: cosa c’è di più facile che mettere alla gogna, non potendolo fare con l’assassino e la sua famiglia, una giovane donna?

Ha ragione Elena: i retaggi di una società culturalmente patriarcale, nel senso peggiore, sono ancora culturalmente ben evidenti ed ancorati.

Ogni anno abbiamo centinaia di casi di donne barbaramente uccise dai loro compagni.

Questo caso è ancora più odioso, perché la vittima viene fatta passare per carnefice per accontentare gli umori di pancia di chi dovrebbe vergognarsi e sentirsi, almeno un poco, colpevole di un mancato progresso civile.
Perché la verità che ci raccontano indirettamente è che la vittima di violenza, per essere tale, deve essere muta nell’accettazione del suo ruolo.

E’ un dato di fatto: alla scomparsa, almeno normativa, di una società basata sul predominio di genere, non è corrisposto un nuovo modello etico, col risultato visibile di una crisi profonda di ruolo. Di madre, di padre, di figlio.

È in questa faglia, in questo vuoto culturale, che maturano devianze criminali, come quella di Filippo, e devianze disumane, come quella di Valdegamberi e soci.
Il “bruceremo tutto” di Elena non è un incitamento all’odio, ma una speranza di futuro.

NdR: le vignette sono di Mauro Biani, vignettista di Repubblica, tranne l’ultima, di Natangelo, da Il Fatto Quotidiano

1 Comment

1 Comments

  1. Guido Del Gizzo

    25 Novembre 2023 at 12:12

    Che commenti faremmo, se, alla vigilia della Giornata del Ricordo della Shoah, venisse trasmesso, sulla rete ammiraglia di Mediaset, un programma di due ore, in prima serata, sulle sagre della porchetta al forno nel basso Lazio?

    Orbene, alla vigilia della Giornata Internazionale Contro la Violenza sulle Donne, la suddetta emittente ha trasmesso Ciao Darwin 9, in prima serata, ottenendo – e questo è il dato più significativo – gli ascolti giornalieri più alti, oltre 4 mln di telespettatori.
    Io mi ci sono imbattuto, facendo zapping durante una pausa pubblicitaria, giusto in tempo per osservare quello che potrete vedere, dal minuto 06:30 in poi, del filmato che allego.

    https://www.tgcom24.mediaset.it/televisione/ciao-darwin-9-elena-santarelli-e-malena-sfilata_73295126-202302k.shtml

    Guardatelo e ascoltate i commenti di Paolo Bonolis con attenzione.
    “Splendida giraffa dalle lunghe leve” -, a proposito di rispetto del corpo femminile, ma poi continua…

    Segnalo, per quelli che non l’hanno ancora capito, che l’universo familiare e culturale di colei che ha “infranto il soffitto di cristallo” è quella roba lì, anche se non è immortalato nella foto delle quattro generazioni di donne che circola da qualche giorno, per rassicurarci sulla sicura assenza di inquinamento paternalistico nella vita del Presidente del Consiglio.

    Adesso aspettiamo con curiosità le reazioni dei talk show televisivi e soprattutto quelle delle donne che più si spendono, sui media nazionali cui hanno facilità di accesso per il lavoro che svolgono, sul tema della discriminazione di genere: Cortellesi, Gruber, Panella, Schlein, Cucciari (speriamo in lei), Dandini e, soprattutto, le molte brave giornaliste che, per fortuna, popolano le reti pubbliche e private.
    Ma, più di ogni altra, quelle delle donne che saranno in piazza oggi.
    Ne riparliamo la prossima settimana

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