Scrittori

Quando mancano le parole, per descrivere l’orrore

segnalato da Sandro Russo

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Se muoiono anche le parole
di Paolo Di Paolo – da la Repubblica del 14 ottobre 2023

Ayelet Gundar-Goshen, scrittrice israeliana: “Per la prima volta in vita mia scrivere non mi sembra possibile”. 

Per la prima volta nella sua vita scrivere non le sembra possibile. Dice che era abituata a usare le parole per capire il mondo, ma questo è un mondo che semplicemente non riesce a capire. È una scrittrice israeliana quarantenne, Ayelet Gundar-Goshen. Una scrittrice a cui – per la prima volta nella vita – scrivere non sembra possibile. Mi racconta di avere lasciato Tel Aviv con la sua famiglia per muoversi verso il nord del Paese, sperando che la guerra non si estenda. Qualche mese fa mi aveva scritto: se passi da qui, sentiamoci per un caffè o una cena. Penso alla tristezza, alla paura e alla rabbia con cui ha vissuto le ore in cui le arrivavano messaggi di amici nel kibbutz durante l’attacco dei terroristi. «E non c’era niente che potessimo fare per aiutarli».

Un suo romanzo racconta di un uomo che entra armato di machete in una sinagoga: «Non era un film d’azione. Si trattava di persone vere, e quello era il momento in cui la loro vita era andata distrutta». Descrive gli incubi notturni, la paura che si infiltra nella quotidianità. Un senso di allarme che non va via. La percezione dolorosa della vulnerabilità che è di tutti, ma pesa come una condanna personale. È una scrittrice: adopera le parole. Lo fa per disegnare paesaggi e psicologie. Qualcuno posa una mano sulla spalla di un altro. Qualcuno piange nel sonno. Servono parole per dire questo. Servono parole perché un personaggio femminile possa esprimersi così: «Ma io non sono pazza, Uri, è il nostro Paese a essere pazzo». E poi: «Ho sognato che abitavamo ancora nel nostro vecchio appartamento, a Tel Aviv. Amavo Israele. La amavo come una donna maltrattata ama il marito che la picchia, ma sa che si deve allontanare per salvare i propri figli».

Un romanzo è fatto di parole, che aspettano di essere lette. Le parole non lette – ha scritto lei una volta – “perdono sapore, sono un albero caduto in mezzo al bosco che marcisce senza che nessuno se ne accorga”.

Nella realtà che sta vivendo in queste ore, mancano le parole per rassicurare il suo bambino di sei anni. Non vuole andare a dormire perché ha paura che i terroristi entrino in casa nel cuore della notte. Dove sono le parole buone per consolare? Ci sembra che le parole siano sempre lì, a disposizione, un bene immateriale e senza prezzo, sempre a portata di mano, di voce. Esistono invece luoghi dell’esistenza in cui le parole mancano come può mancare l’aria o l’acqua. Mancano le parole per consolare, per rispondere. Anche solo per descrivere un evento, per spostarlo dallo spazio fisico in cui è accaduto a uno spazio linguistico che lo certifica, lo rende narrabile e comprensibile. Nelle cronache dell’agguato di Kfar Aza si coglieva un affanno nel racconto di diversi cronisti. Un’esitazione lessicale, una sintassi che si spezza. Può accadere: ciò che iperbolicamente definiamo “indicibile” si incarna. Si oppone alla comprensione e di conseguenza alle parole. Le respinge, le cancella. Le rende ineffettive e vuote. E si inceppa la retorica – diciamo pure onesta – che ci permette di distanziarci dall’orrore, rubricandolo come disumano quando anche il disumano è nell’umano.

Uno scrittore, una scrittrice lavorano contro ogni retorica e sfidano per statuto l’indicibile. Emmanuel Carrère, seguendo il processo sulla strage del Bataclan, vuole mostrare “da ogni angolatura, dal punto di vista di tutti gli attori, che cos’è successo quella notte”. Ha davanti agli occhi uomini “rotti a tutto” che, ricordando, scoppiano a piangere. Come l’autista di un’ambulanza fotografato martedì a Gaza. Come stabilire il prezzo delle lacrime?, si domanda Carrère. Anche le parole hanno un prezzo: lo sa, lo dice. E si avverte la fatica con cui fissa su carta la domanda più ricorrente dei familiari delle vittime del massacro: «Ha sofferto?». La risposta è impossibile. In quel silenzio attonito le parole sono sconfitte. Muoiono: come coloro che non potranno più pronunciarne. Bambini di Kfar Aza; bambini di Khan Younis, a sud di Gaza. È oscena ogni bilancia che pretende di pesare l’orrore. E non c’è parola, in nessun linguaggio umano, capace di consolare – ha scritto un sopravvissuto di Hiroshima – “le vittime che non sanno il perché della loro morte”.

[Di Paolo Di Paolo – Da la Repubblica del 14 ott. 2023]

Ayelet Gundar-Goshen: libri pubblicati e informazioni  (cliccare per ingrandire)

Immagine di copertina: una via di Tel-Aviv (foto dall’articolo di Repubblica)

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