di Sandro Russo
Mi piace andare al cinema e poi scriverne per Ponzaracconta. Non tanto una recensione – per quella ne prendo in prestito qualcuna buona, che condivido –, ma per allargare lo sguardo, fissare i pensieri e i richiami innescati dalla visione del film.
Si tratta dell’ennesimo film sul viaggio.
Il tema del viaggio, e quello dell’amore, insieme o separatamente, raccolgono, credo, il 90% di tutte le trame letterarie e cinematografiche, dalle quest medievali in poi (1), ma si potrebbe risalire anche all’antica Grecia.
Innanzitutto la recensione di Giancarlo Zappoli, che si può tranquillamente leggere, perché non anticipa nessuna sorpresa…
L’imprevedibile viaggio di Harold Fry
Da www.mymovies.it, del 2 ottobre 2023
Un riuscito on the road della memoria. Da vedere innanzitutto per la performance di Jim Broadbent.
Harold Fry è un uomo in là con gli anni che trascorre una vita piatta e senza scosse con la moglie Maureen in una cittadina dell’Inghilterra. Un giorno riceve la notizia che Queenie, di cui un tempo era amico, sta per morire a causa di un tumore. In seguito a una vicenda che si è sentito raccontare decide di partire a piedi per affrontare l’attraversamento del Paese. Lo scopo è quello di spingerla a resistere al male in attesa del suo arrivo.
Rachel Joyce sceneggia il film tratto dal romanzo che lei stessa ha scritto.
Questo finisce con l’essere il problema che Hettie MacDonald si trova a dover fronteggiare riuscendo comunque a portare a compimento un film interessante. La regista ha già avuto in precedenza a che fare con una serie (Normal People) anch’essa tratta da un romanzo (di Sally Roonie) ma, come spesso accade, l’avere come autore dello script chi ha scritto il romanzo può costituire un vincolo. Lo è evidentemente, come ognuno potrà verificare, nel finale sul quale è bene non aggiungere altro per non fare spoiler. Sarà sufficiente ricordare che un conto è spingere sul tasto dell’emozioni in un libro ed un altro è farlo sullo schermo.
Detto ciò il film vale la visione innanzitutto per la prestazione di Jim Broadbent che mostra ancora una volta (non essendo necessario dimostrarlo) come tutti i riconoscimenti ottenuti nel corso della sua carriera (Oscar compreso) fossero meritati. La naturalezza con cui aderisce al suo personaggio, unita al fatto di aver girato in ordine sequenziale, ci rende il suo Harold vicino e ci consente di comprenderne aspettative e sensi di colpa rendendo anche credibili passaggi che rischiano di esserlo meno (tranne uno, riguardante un cane, che resta, come può testimoniare chiunque abbia un amico a quattro zampe, abbastanza lontano dalla realtà).
Il suo viaggio in un’Inghilterra ben poco piovosa diventa un on the road della memoria in cui l’ambiente, sia esso naturale che urbano, diventa qualcosa di più di uno sfondo. Così come il rapporto con coloro che il protagonista incontra nel suo percorso si trasforma in occasione per brevi (e spesso riusciti) ritratti di un’umanità che ha bisogno di condivisione anche quando finisce con il negare il bisogno stesso.
Come in fondo è accaduto ad Harold e Maureen che, colpiti nel passato da uno degli eventi più traumatici che un essere umano possa sperimentare, hanno finito con il credere di non aver più necessità di uno scambio reciproco condannandosi a una sopravvivenza priva di qualsiasi slancio emotivo. Quello che finisce con l’essere trasformato dai media in un Forrest Gump made in Britain (in questa parte la vicenda assume un po’ il sapore del deja vu) è un uomo che ha una meta (ideale e logistica) ma che non per questo sta fuggendo dal suo punto di partenza, anche se la tentazione è forte.
Chi guarda viene invitato a chiedersi se far prevalere il buon senso comune di Maureen o sostenere l’utopia di suo marito. In film come questo solo la presenza di due grandi attori può permettere alla regia di arrivare sino in fondo senza danni. Hettie MacDonald li ha trovati.
Poi da YouTube il trailer del film:
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E infine due chiacchiere tra miei ricordi e emozioni…
Senza allargare troppo il discorso, ricorderei gli echi che il film di ieri mi ha suscitato.
In campo letterario, dato che Israele è d’attualità, un bel libro di David Grossman: Leggi sul sito “Come trovar conforto dopo una perdita devastante“.
Il romanzo “A un cerbiatto somiglia il mio amore” (2008) “narra di una madre che con un gesto vitalissimo e disperato fugge dai militari venuti ad annunciarle la morte del figlio”; e inizia un viaggio nell’idea folle che finché non l’avesse trovato, il figlio non avrebbe potuto morire.
Attraverso la storia di una madre alla ricerca del figlio, viene ripercorsa la storia di un’intera nazione, con le sue contraddizioni e fragilità.
Quest’idea pazzesca – magica e tenera, che l’altra persona non possa morire prima che la si sia incontrata, permea anche il nostro film. E l’assunto è che si sta combattendo insieme, ciascuno la sua parte di dolore e di fatica per allontanare la morte.
Poi nel viaggio – compiuto per lo più in solitudine, ma non sempre, malgrado la volontà di Harold – accadono tante cose… Ed è una sorpresa continua della sceneggiatura introdurre delle variazioni sul tema della solitudine che ad ogni incontro scoprono una nuova sfaccettatura e fanno conoscere un po’ di più il protagonista (allo spettatore, ma anche a se stesso), attraverso numerosi flash-back.
Forrest Gump. Due locandine (la seconda da: alternativemovieposters.com)
Più che a Forrest Gump (Robert Zemeckis, 1994, con Tom Hanks) le cui motivazioni alla corsa attraverso l’America sono del tutto diverse – che tutto è possibile se lo si vuole fortemente -, ho pensato a un altro film, un’opera atipica rispetto alla filmografia di David Linch, di cui abbiamo già parlato sul sito: in commento a La bella America di Mike Vitiello.
Una storia vera (The Straight Story) è un film del 1999 diretto da David Lynch.
Si basa su un fatto realmente accaduto e racconta la storia di Alvin Straight, un contadino dell’Iowa che nel 1994, a 73 anni di età, intraprese un lungo viaggio con un trattorino per andare a trovare il fratello reduce da un infarto. Straight coprì in 6 settimane la distanza di 240 miglia (386 chilometri circa), viaggiando a 5 miglia all’ora (8 km/h).
Un viaggio fatto non a piedi, ma a bordo di un tagliaerba, attraverso un’America rurale, di grandi orizzonti e buoni sentimenti; il tutto fotografato nei colori caldi e dorati dell’autunno. Anche qui, ogni incontro lungo la strada aggiunge un tassello di senso e anche qui c’è la convinzione incrollabile che nessuno morirà, se i due fratelli non si saranno prima chiesti scusa a vicenda.
Il nostro film comunica pienamente l’idea che il viaggio è al contempo nello spazio esterno e dentro se stessi, e con un certo buonismo dello sguardo registico, il protagonista scioglie tutti i nodi rimasti irrisolti con se stesso e con la compagna durante venticinque anni.
La recensione accenna anche alla difficoltà per una regista ad avere come sceneggiatrice l’autrice del romanzo. Incuriosito, ho dato uno sguardo sul web alla trama del romanzo (si trova solo in inglese.
Si dice sempre che un libro e un film sono (devono essere) due linguaggi diversi, due diversi mezzi espressivi, ma qui il “conflitto d’interesse” era immanente. Deve essere stato un bel braccio di ferro (tra donne!) convincere la Rachel Joyce sceneggiatrice a tagliare una discreta parte del finale del suo libro, a favore di una trama più scarna e lineare. Ma complimenti… il film così funziona.
Un elogio del viaggio dunque, con attori molto bravi (umani e canini); e concordo con le perplessità di Zappoli sul ‘personaggio’ del cane.
Ma sono uscito dal cinema più leggero e ben disposto nei confronti del mondo crudele, il che – per cinefili e non – è sempre un bel risultato.
Note
(1) – Il termine quête (inglese “quest”, in italiano, meno frequentato: “ricerca”) deriva dal francese e significa ‘ricerca’. La parola viene talvolta utilizzata nell’ambito degli studi della letteratura romanza originariamente medievale, indicando quindi una sorta di percorso o di ricerca più o meno deliberatamente intrapresa dall’individuo, che in genere è protagonista di un’opera letteraria.
La dizione è tradizionalmente legata al concetto di viaggio: nel caso ideale, il cavaliere medievale segue un percorso ad esempio di peregrinatio, che lo porterà a destinazione non solo nella dimensione spaziale, ma che contribuirà anche al raggiungimento di un punto di arrivo ideale, che può avere carattere religioso oppure spirituale in genere.
Questo topos di ricerca spirituale può estendersi anche ad altri concetti, primo tra tutti quello della quête amorosa, dove il pellegrino è impegnato non solo nei difficili meandri del viaggio, ma anche in quelli della ricerca della persona da amare (da Wikipedia, Ibidem)
(2) – James Broadbent, detto Jim (1949), è un attore britannico, vincitore del premio Oscar al miglior attore non protagonista nel 2002 per l’interpretazione in Iris – Un amore vero (film del 2001 diretto da Richard Eyre, con Judy Dench).
Con una sterminata filmografia alle spalle, lo apprezziamo (e lo riconosciamo) dai tempi di Brazil, di Terry Gillian (1985)