Politica

Lezioni di Politica (6). L’egemonia culturale tra destra e sinistra

a cura della Redazione

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Inseriamo di tanto in tanto nella nostra antologia, “Lezioni di Politica”, i diversi saggi dal  titolo “A scuola di politica” che Roberto Esposito sta pubblicando su la Repubblica, come parte di una serie organica [questo è il quarto articolo della sua serie, anche in file .pdf in note (1)].


A SCUOLA DI POLITICA.4
L’egemonia perduta nell’era social
di Roberto Esposito

Altro che Gramsci: l’Italia l’ha sperimentata solo all’epoca del “Manifesto degli intellettuali fascisti”. Ecco perché ora non può più tornare
Adesso tocca alla destra: è questa la vulgata dei media vicini al governo
Oggi il vero potere è nelle piattaforme e nell’IA. Ma ciò che accade non è un destino È il frutto di scelte che possiamo modificare in vista di un modello sociale equo ed umano

È ora di cambiare. Dopo decenni di egemonia culturale della sinistra, adesso tocca alla destra. La sua cultura deve uscire dal ridotto in cui è stata a lungo confinata e proporre una propria visione della società. Solo in questo modo, rimuovendo le incrostazioni di potere e le rendite di posizione di cui la cultura progressista ha finora goduto, si potrà instaurare un vero pluralismo di valori.

Questa, almeno, è la vulgata che da qualche tempo risuona nei convegni e riempie le pagine dei giornali vicini al governo italiano. Ma le cose stanno davvero così?
Basta un rapido sguardo alla storia recente per dubitarne fortemente. In Italia l’unica forma strutturata di egemonia culturale, non attraverso l’acquisizione del consenso, ma la repressione del dissenso, è stata realizzata dal Manifesto degli intellettuali fascisti nel 1925. Allo stesso periodo risale la fondazione dell’Istituto nazionale fascista di cultura e l’Enciclopedia Italiana diretta da Gentile.
L’esito complessivo di queste iniziative, dotate di notevole capacita strategica, non è stata l’autonomia degli intellettuali italiani, bensì il loro inquadramento nello Stato totalitario fascista. Coloro che aderivano al manifesto, infatti, rinunciavano alla difesa dei principi illuministi e alla difesa dei diritti dell’uomo in nome di un’ideologia liberticida.

Come ricorda Francesco Germinario nel recente Gente malfida. La critica degli intellettuali nella cultura di destra (1789-1925) (Ed. Ombre corte), fino a quel momento la destra europea aveva avuto un cattivo rapporto con la cultura, tenuta in sospetto a partire dall’affare Dreyfus.
In quella triste vicenda un capitano ebreo francese, accusato ingiustamente di tradimento e degradato, era stato riabilitato dopo l’intervento di intellettuali guidati da Émile Zola. Da allora il loro ruolo critico è entrato nel mirino della reazione. Accusati di avere indebolito la nazione a favore di astratti ideali di giustizia, sono stati messi sotto attacco da una destra nazionalista che riproponeva gli argomenti dei controrivoluzionari contro gli ideali del 1789. Ma rispetto alle posizioni restauratrici dei vari Barrès, Drumont, Maurras, la chiamata a raccolta degli intellettuali fascisti del 1925 segnava una stretta ulteriore. Contro democratici e liberali — che avrebbero risposto con un Manifesto antifascista scritto da Croce — quello redatto da Gentile sosteneva di fatto la fine del pluralismo e l’abolizione della libertà di stampa. Firmato anche da nomi illustri come Pirandello, Ungaretti, Volpe, Spirito, per la prima volta in Europa si delegava la funzione pedagogica della cultura direttamente al governo e al suo capo.

Rispetto a tale macchina da guerra, l’egemonia teorizzata da Antonio Gramsci era cosa assai diversa. In contrasto con l’idea di dominio, egli sosteneva che il consenso andasse guadagnato all’interno della società civile. Certo, Gramsci si proponeva una diffusione capillare di una prospettiva del tutto estranea alla cultura liberale. Ma la traduzione politica delle sue idee nel dopoguerra, da parte di Togliatti, risultava assai parziale. Orientata soprattutto ad alcuni segmenti del mondo editoriale e universitario, l’egemonia comunista restava minoritaria sul terreno popolare, rispetto alla capillarità della militanza cattolica e poi al monopolio democristiano sulla televisione.

Quando poi, a partire dal Sessantotto, si sono rotti gli argini della mentalità tradizionale a favore di nuovi stili di pensiero provenienti dai campus americani o dai boulevard parigini, si è entrati in una stagione nuova di difficile collocazione ideologica.

Come il più intelligente intellettuale conservatore, Augusto Del Noce, coglieva, la nuova cultura radicale era essenzialmente diversa da quella gramsciana o togliattiana. Ciò che interveniva era un salto epocale che rendeva impraticabile un’intera gerarchia di valori, investita dalla rivendicazione di diritti sociali e civili che nei decenni successivi tutte le società avanzate avrebbero fatto propri. Che alcuni risultati controfattuali di quel cambio di paradigma possano essere discussi, non toglie che è difficile immaginare un passo indietro sul suo significato complessivo.
In questo senso condivido lo scetticismo di Marcello Veneziani (1) sulla possibilità effettiva di una egemonia della destra in Italia. Non solo perché mancano gli esponenti, la qualità, l’attitudine per un ritorno al passato che finirebbe per isolare il Paese sul piano internazionale. Il che spiega l’apparente schizofrenia di un governo che da un lato cerca di rinsaldare le alleanze occidentali con atteggiamenti prudenti e dall’altro difende principi, linguaggi, accenti largamente screditati.

Ma, più in generale, il tempo dell’egemonia culturale appare finito. Ciò deriva da un lato dalla riduzione di status degli intellettuali umanisti, sempre meno influenti. Dall’altro dallo sviluppo tecnologico che mette in campo strumenti enormemente più rapidi e potenti per influenzare le coscienze, nella sostanziale scomparsa della “sfera pubblica”. Di fronte al potere delle grandi piattaforme e dell’intelligenza artificiale, illudersi di influenzare con i libri la politica appare un’utopia.

Ciò non significa che la funzione degli intellettuali sia venuta meno. Del resto l’egemonia, almeno come la immaginava Gramsci, non si riduceva alla conquista di spazi d’influenza. Essa risiedeva soprattutto nella consapevolezza della storicità dell’esperienza. Tutto ciò che accade, anche la riduzione delle alternative individuali e collettive in un mondo popolato da dispositivi tecnici, non è un destino. È il frutto di scelte che possiamo modificare in vista di un modello sociale più equo ed umano. 

 

[Di Roberto Esposito. A scuola di Politica 4. Continua]

Note

(1) – Roberto Esposito. A scuola di Politica.4. La Repubblica 3 ott. 2023.pdf

(2) – Immagine di copertina dal web: è contenuta in un saggio di Marcello Veneziani, che l’autore del presente articolo (R. Esposito) esplicitamente cita: “Nove pensieri contro ogni egemonia” (anche in file .pdf allegato): Nove pensieri contro ogni egemonia, di Marcello Veneziani (maggio 2023).pdf

 

Per gli articoli precedenti della serie di Ponzaracconta (che include anche quelli di Roberto Esposito),
digitare Lezioni di Politica nel riquadro “Cerca nel sito”

 

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