di Gino Usai
Scienza e morale
Nella riduzione cinematografica del romanzo di Wells – da Silverio Tomeo ben narrata – ad un certo punto il dr. Moreau (sapiente medico e scienziato che vive in un’isola sperduta del Pacifico, specializzato in scienze di vivisezione) illustrando a Edward Prendick il suo programma scientifico, parte da un assioma che lo assilla perché gli appare come un tremendo limite posto allo sviluppo della scienza, e con una domanda retorica gli chiede: “Perché una cellula deve essere legata a una forma e a un destino che non può essere modificato? O possiamo modificarlo?!”
Da questa sfida alla natura e ai limiti che essa pone (una sfida pari a quella che fece Ulisse oltrepassando le colonne d’Ercole, motivo per il quale Dante lo condannò all’Inferno mandandolo tra i consiglieri fraudolenti, per aver messo l’intelligenza umana – sublime dono di Dio – al servizio del male) nasce la sua orribile attività di manipolatore genetico che col passare dei giorni il suo ospite Prendick scopre con raccapriccio. Un giorno il dottore, illustrando il lavoro già intrapreso in laboratorio su un animale, spiega all’esterrefatto Prendick; “Questa creatura è al secondo ciclo di trattamento, un mese fa era un orso. Il siero che gli inietto contiene un diverso e preciso indirizzo biologico. Un nuovo siero modificherà poi gli istinti naturali dell’animale, e con l’ausilio di particolari interventi chirurgici su qualche organo la bestia potrà crescere assumendo qualunque aspetto a noi piaccia, anche quello di un essere umano”.
Qual è dunque l’intento del dr. Moreau? Apparentemente buono: trasformare gli animali in uomini ed emanciparli dalla loro condizione di minorità.
Antico vizio dell’uomo quello di pianificare e realizzare una società più avanzata, senza considerare i costi umani che comporta e le libertà individuali che compromette. Ma non è sempre stato questo l’obiettivo di tutti i totalitarismi, soprattutto del Novecento?
Nell’inserto culturale de “Il Sole 24 ore” di domenica 2 Settembre, il romanziere e critico letterario David Lodge a proposito di Wells, scrive: “Egli aveva colto la raggelante verità secondo la quale l’evoluzione non garantisce all’umanità un progresso infinito e che potremmo facilmente cadere in un declino terminale a causa della nostra stessa follia autodistruttiva o di qualche catastrofe inaspettata che trascende il nostro controllo”.
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Già Robert Louis Stevenson col suo “Lo strano caso del dottor Jekill e del signor Hyde” nel 1866 aveva trattato il delicato tema della manipolazione genetica e della distinzione tra bene e male, toccando grandi questioni di ordine morale.
E prima di lui Mary Shelley, con “Frankenstein, o il moderno Prometeo”, nel 1818 aveva posto il tema della manipolazione genetica. Nel romanzo il dr. Victor Frankenstein vuole creare un essere umano più intelligente, dotato di salute perfetta e lunga vita. Egli vuole arrivare a mettere le mani sui misteri più profondi della creazione. Per questo studia la decomposizione e il percorso degenerativo dei cadaveri, per arrivare a generare un essere umano da materia inanimata. La creatura però, appena resuscitata, appare deforme e sgraziata alla vista, dotata di una forza fisica smisurata. Questa mostruosa creatura sfugge al suo controllo compiendo scelleratezze in giro per il mondo, fino alla morte. Shelley crede nei poteri creativi degli uomini e della scienza, ma ci avverte di quanto sia pericoloso manipolare forze più grandi dell’uomo.
I danni che una scienza incontrollata può provocare sull’uomo erano già stati indicati dallo scrittore inglese Christopher Marlowe nel lontano 1590 con l’opera “La tragica storia del Dottor Faust”, ripresa poi magistralmente da Goethe nel 1808. Il dr. Faustus, avido di conoscenza, non si accontenta del sapere accademico, della medicina e della teologia, e si avventura nel campo della magia nera. Il tema della ricerca libera e autonoma della verità, cioè non più soggetta alla teologia dogmatica, era già molto dibattuto a quel tempo. Faustus, sofferente delle limitazioni sulla conoscenza umana, attraverso la magia nera invoca e ottiene un contatto Mefistofele, e stabilisce con il diavolo un patto scellerato: l’anima in cambio del dominio della conoscenza.
E questo desiderio sfrenato di conoscenza (insito nell’uomo) ci fa venire in mente il racconto biblico della creazione, quando Adamo ed Eva mangiano il frutto proibito della conoscenza attratti dall’idea di poter eguagliare Dio. Il demonio, assunte le sembianze di serpente, li tenta dicendo: “Dio sa che, quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”. E quando i loro occhi si aprono si accorgono di essere nudi.
Faustus pecca di avidità intellettuale, perché vuole diventare potente come il diavolo stesso. Desidera che la gente lo elogi come un genio, si compiace che gli altri lo guardino come un “eroe”, anche se sa perfettamente di non esserlo. E ciò aumenta ancora di più la sua superbia, nonostante si renda conto che il potere della conoscenza gli porterà solo dannazione. E così sull’altare dell’orgoglio e della brama sacrifica la sua libertà eterna in cambio di una libertà temporanea e illusoria.
Nell’opera di Marlowe – dopo che i diavoli hanno preso Faust per portarlo all’inferno – il Coro pone fine alla tragedia:
“Faust se n’è andato. Meditate la sua caduta.
La sua tragedia possa esortare i saggi
a una sacra paura delle cose illegali,
le cose profonde che attirano spiriti arditi
a esperire ciò che il cielo ha proibito.”
(Continua)
Gino Usai