segnalato da Sandro Russo, da la Repubblica
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Cultura
L’equivoco che nasconde l’elogio del parlare semplice
di Concita De Gregorio
Bella cosa la semplicità di linguaggio, sì. Un dono, la chiarezza. Certi scrittori è un piacere leggerli, certi politici ascoltarli. E un obiettivo a cui tendere, anche: col tempo succede naturalmente. Più passano gli anni è più si viaggia leggeri, ogni zavorra — anche lessicale — è un peso. Non occorre usare il latino per mostrare che sei colto.
Specialmente dopo una certa età capisci che tutto quel che sai ti serve solo a dire cose essenziali, quelle indispensabili, in modo comprensibile.
È però il girone di ritorno, questo. C’è un equivoco, infatti, all’origine dell’elogio collettivo della chiarezza: esiste una semplicità di andata e una di ritorno.
Se hai un lessico di trecento parole sei semplice, ma sei povero. Se ne hai uno di trentamila e ne usi trecento sei ricco, talvolta saggio.
L’uguaglianza livellata al basso è un grandissimo inganno che il potere usa verso il popolo. Una lusinga, siamo tutti uguali, demagogica e pericolosa. Il pericolo consiste nella sudditanza: se non sai non hai armi per opporti, mai. Vivi in prigione.
È facilissimo essere tutti uguali senza niente. Tutti senza banchi a scuola, tutti senza un lavoro dignitoso, tutti senza assistenza sanitaria efficiente. Al punto zero siamo tutti ugualmente deprivati. È essere uguali puntando ad avere molto che è difficile, ed è questo che dovrebbe fare la politica in un paese democratico. Fare in modo che tutti i cittadini siano uguali nel più, non nel meno.
Le parole sono un’arma, dicevo. L’unica di cui dispone chi non ha altro. Le parole si coltivano imparandole con fatica, studiando, leggendo, ascoltando. Con le parole puoi discutere dissentire argomentare, opporre le tue ragioni, smascherare un inganno e detronizzare un despota. Se le conosci, però. Solo se le conosci anche quando decidi di non usarle.
Sogno, cullo l’illusione di un paese in cui tutti sappiano cosa significhi stagflazione. Per poi decidere eventualmente di non dirlo, è orribile. Ma sapendo tutti, però, di cosa stiamo parlando (e lo sappiamo: è quando aumentano i prezzi ma non la ricchezza, non la crescita economica. Un’esperienza piuttosto comune, solo che non abbiamo nel vocabolario la parola).
La semplicità a cui ambire non è quella in cui nessuno sa l’italiano: è quella in cui tutti o la maggior parte possibile lo sanno.
Anche il “parla come mangi” è un inganno. Dipende. Da come mangi, da cosa ti puoi permettere di mangiare, da quanti soldi hai, da quanta educazione hai ricevuto. A pane e mortadella per tutti il “parla come mangi” è un’esortazione involutiva. È il ritorno allo stadio primitivo e non è un buon politico chi si esibisce con lo stesso cibo di chi non può nutrirsi d’altro avendo lui, evidentemente, la possibilità di mangiare brioches. È populismo, retorica, menzogna. È il gioco osceno di chi dice siamo tutti popolo, tutti ugualmente poveri e ignoranti: siate felici così e non pretendete altro.
La semplicità è complessità risolta, invece. È ritrovare l’essenziale nel dedalo del pensiero, dei dubbi. La saggezza, l’esperienza, la cultura ti aiutano ad essere semplice. Non sei obbligato ad esserlo dalla povertà di mezzi, torni ad esserlo perché lo scegli.
I libri del generale Vannacci vendono moltissime copie perché tutti li capiscono, e anche purtroppo perché ne condividono il contenuto — questo è il punto in cui la politica e la cultura si incrociano, diventando una ragione dell’altra.
Anche molti scrittori molto popolari, autori di best seller, usano un vocabolario essenziale. Vanno a cercare un pubblico che non sa per lusingarlo, soddisfarlo. I libri di Carlo Emilio Gadda al contrario sono scritti in un italiano complesso. Serve il dizionario, talvolta, per comprenderne il significato. Azzardo l’ipotesi tuttavia che siano più utili all’evoluzione della specie di quelli del generale. Ogni sforzo, difatti, è evolutivo. Ogni risacca stagnante.
Conosco moltissime persone che usano linguaggi tecnici e indecifrabili: nelle mail, nel discorso. Taluni lo fanno per non farsi capire, sono in genere coltissimi e usano le parole come barriera tra sé e la moltitudine, per isolarsi e distinguersi: il linguaggio giuridico, per esempio, è spesso inutilmente criptico. È la tecnica dell’azzeccagarbugli. Io so e tu no, dunque per uscire dai tuoi guai hai bisogno di me.
Pagami, decifrerò quel che per te è incomprensibile. Altri usano il linguaggio aziendale o cosiddetto tecnico perché non conoscono altro che quello: ti costringono a tradurre dall’inglese parole che sarebbero bellissime in italiano, posso assicurare che esistono. Solo che non le sanno, o le considerano meno adatte a quel che vogliono esibire come status. Fanno tenerezza, se li riconosci. In caso contrario ottengono il risultato di intimidire. È sempre il sapere, la difesa.
Ora, è chiaro che un politico deve farsi capire. Tante volte ho scritto che Elly Schlein, per esempio e per stare alla polemica di questi giorni, porta con sé il retaggio di una lingua che viene dalla sua storia. Il femminismo, la dialettica del “confronto di base”, la condivisione, ancora prima i centri sociali. Anche quelli sono codici, nel girone di ritorno bisognerebbe saperli scardinare e tornare alla semplicità. È un lavoro da fare.
Giorgia Meloni parla un italiano semplicissimo, fatto di slogan.
È più popolare, con evidenza. È più abile nel rendersi popolare: scarta la parola stagflazione non perché non sappia cosa significa ma perché sa che la maggior parte delle persone non lo sa. L’obiettivo però non può essere tendere all’ignoranza, applaudirla, vezzeggiarla. Dovrebbe essere sconfiggerla, con un lungo e duro lavoro. Poi certo: se fai politica devi farti capire. Devi scegliere la semplicità, quella del girone di ritorno, per coltivare e far fiorire ovunque la complessità. È quello l’approdo: essere tutti uguali, sì, ma tutti più ricchi. Di mezzi e di parole.
[Di Concita De Gregorio da la Repubblica del 17 settembre 2023 (in prima pagina; cont. a pag. 23)]