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La scomparsa di Giuliano Montaldo: non lo dimenticheremo

di Gianni Sarro dal suo profilo Instagram, in condivisione con Ponzaracconta

 

Giuliano Montaldo è scomparso all’età di 93 anni.
Genovese di nascita, esordisce al cinema nelle vesti di attore in Achtung banditi (Lizzani, 1951), poi passa dietro la macchina da presa e firma capolavori come Sacco e Vanzetti (1971) e Giordano Bruno (1982), entrambi con Gianmaria Volonté al vertice della propria smisurata bravura. Dirige anche una serie tv Marco Polo (1982) modernizzando i canoni del serial televisivo e alzandone la qualità.
In una recente intervista al Corsera, che allego, aveva detto che la sua paura era quella di dimenticare.
Di sicuro non ti dimenticheremo noi.
Grazie, Maestro.

L’ultima intervista al Corriere di Giuliano Montaldo: «La mia paura è dimenticare le cose che ho vissuto»
di Roberta Scorranese, inviata a Roma

È morto nella sua casa di Roma il regista Giuliano Montaldo, aveva 93 anni. Anche sceneggiatore e attore, diresse oltre 20 film. Tra questi «Gli Intoccabili» (1969); «Sacco e Vanzetti» (1970); «Giordano Bruno» (1973); «L’Agnese va a morire» (1976); «Gli Occhiali d’oro» (1987). Questa intervista risale a giugno 2021.
Il regista, a 91 anni, si raccontava così: i film con Volonté, il lungo legame con la moglie


Giuliano Montaldo, lei è nato nel febbraio del 1930, l’anno in cui uscì «L’angelo azzurro» con Marlene Dietrich.

«Ma io stavo a Genova, le cose arrivavano in ritardo».

La guerra però arrivò presto.
«Quando giunsero gli americani Genova era già città aperta. Ma ricordo le bombe. Un giorno corremmo nel rifugio. Quando uscimmo vidi papà e mamma che si abbracciavano piangendo: la nostra casa non c’era più».

È vero che lei da ragazzino cercava di unirsi ai partigiani?
«Mi ero messo in testa di salvare il Paese, stavo con i Gap, i gruppi di azione patriottica. Il primo film in cui ho recitato è stato Achtung Banditi! di Carlo Lizzani, una storia di partigiani in Liguria, appunto».

E l’esperienza come critico al quotidiano «Il Lavoro» di Genova?
«Ero giovane e presuntuoso. Un giorno, mostrando poco rispetto per un film, scrissi una recensione di una sola riga, che faceva così: “Meno male che finisce”. Ad un tratto sentii un urlo feroce alle mie spalle: “Chi ha scritto questa roba!?”. Era Sandro Pertini, all’epoca direttore del Lavoro. Me la fece rifare da capo. Anni dopo, consegnandomi un premio nella veste di capo dello Stato, si accostò e mi sussurrò all’orecchio: “Ehi, hai poi imparato a scrivere?”».

Poi, finalmente, il cinema. I film con Gillo Pontecorvo ed Elio Petri.
«Gillo parlava praticamente solo di tennis. Era un uomo di grandissima umiltà. Conobbi anche il fratello, Bruno, il fisico che si era trasferito in Unione Sovietica perché convinto che il mondo fosse sbilanciato in favore dell’area atlantica sul piano della potenza nucleare».

Lei intanto si era trasferito a Roma e campava con i supplì.
«Un giorno venne mia madre a trovarmi. Mi vergognavo a dirle che vivevo in un bugigattolo a casa di Gillo, così le pagai un albergo e un tour in macchina. Ma lei capì tutto e prima di ripartire mi disse, piangendo: “Guarda che a casa per te un piatto di minestra c’è sempre”».

Esattamente sessant’anni fa il suo esordio nella regia con Il tiro al piccione. Nella sua autobiografia dal titolo Un grande amore, appena pubblicata da «La nave di Teseo», lei lo dice chiaramente: il piccione ero io.
«Già, perché avevo voluto raccontare la storia da una prospettiva diversa, da quella sbagliata: la vicenda di un uomo che sceglie di stare con la Repubblica Sociale, riconoscendo l’errore alla fine. Apriti cielo».

Quel lato della storia non si poteva nemmeno nominare, nemmeno per condannarlo?
«Nelle sale la pellicola andò benissimo ma la critica mi fece a pezzi. Avevo solo 31 anni, ero deciso a lasciare il cinema per tornare a Genova a fare il camallo. Poi però mi chiamò il produttore Leo Pescarolo. Voleva farmi fare un film. Entrai nella sua stanza e vidi lei. La vidi per la prima volta e decisi di restare a Roma».

«Lei» è Vera Pescarolo, sorella del produttore, la donna che dà il titolo al libro di Montaldo, la moglie, la donna del «grande amore» durato sessant’anni, la donna che siede qui accanto a noi in questo appartamento del quartiere Prati pieno di foto e di ricordi in bianco e nero. Giuliano e Vera, un film senza «the end». Una vita insieme, un amore saldo come la carriera di Montaldo, che ieri a Milano, durante la rassegna Milanesiana, ha ricevuto il premio alla carriera al cinema Mexico, al termine di una giornata interamente dedicata ai suoi film (sono stati proiettati «Sacco e Vanzetti», «Giordano Bruno» e il controverso «Tiro al piccione»). Ma oggi tutto sembra perfetto in questo interno romano che sta a due passi dalla strada dove Anna Magnani viene fucilata nella sequenza più famosa di «Roma città aperta». Vera Pescarolo è una presenza allegra, delicata, un viso ancora bellissimo.

Come si fa a stare assieme per tanto tempo, Montaldo?
«Recitiamo l’uno per l’altra. Per esempio, io faccio la sua imitazione e lei finge di arrabbiarsi ma poi si mette a ridere. Ogni giorno invento un nuovo scherzo da farle. Stare insieme è anche questo, una sceneggiatura da scrivere con lei».

È stato dunque grazie a Vera che lei decise di rimanere a Roma e di insistere con il cinema, ponendo le basi di una lunga carriera?
«Certo, mi innamorai di lei appena la incontrai e quando, mesi dopo, la vidi prendere a pugni un camionista maleducato non ebbi più dubbi: era lei l’amore che nella vita si incontra una volta sola e solo se si è fortunati».

Ci sono persone che nascono, crescono, muoiono senza aver mai conosciuto l’amore…
«Ecco perché ogni amore è un regalo».

Da allora la sua carriera decollò.
«Sì, Pontecorvo mi volle come regista della seconda unità per La battaglia di Algeri. Poi con la Jolly Film girai Ad ogni costo, protagonista il grande Edward G. Robinson. Fu lavorando con lui che capii che cosa vuol dire essere un attore: Edward chiese di andare al mercato, frugò per tutta la mattina tra le bancarelle e alla fine trovò una giacca usata. Poi prese dei assi e una lima, tornò in albergo e cominciò a consumarla perché il suo personaggio doveva indossare una giacca lisa. Alla sera, quando l’indumento fu pronto, finalmente si rilassò».

Nel film c’era anche Klaus Kinski.
«Non mi ci faccia pensare. Alla fine delle riprese si avvicinò al resto della troupe e chiese di giocare a flic-floc con qualcuno. Un capo macchinista accettò, gli porse l’indice e Kinski lo prese e glielo spezzò. Così, per gioco».

Oddio, lei ha diretto un altro grandissimo eccentrico, Gian Maria Volonté: sarà abituato alle stranezze degli attori.
«Sì ma Gian Maria era diverso. Lui impazziva quando si immedesimava totalmente nella parte. Quando girammo Giordano Bruno, non so come si mise a parlare in nolano e lui il nolano non lo conosceva. La sera prima di girare la scena del rogo, io e Vera eravamo già a letto quando sentimmo entrare qualcuno. Era Volontè che sollevò le coperte e si mise a urlare: “Domani mi bruciano vivo e voi dormite!”. Poi si infilò nel letto con noi e si addormentò».

Lei lo ha diretto anche in «Sacco e Vanzetti».
«Sì e quando il film uscì Salvador Allende mi mandò un biglietto dicendo che lo aveva visto in sala, assieme al pubblico e che gli era piaciuto moltissimo. Un film su Allende è stato uno dei miei due sogni mai realizzati».

Qual è stato l’altro?
«Avrei voluto fare un film sul rogo del Reichstag. Ma poi cadde il Muro di Berlino, il mondo cambiò».

Montaldo, lei ha girato «Gli intoccabili», film del 1969, dove per la prima volta si vede la mafia in giacca e cravatta.
«Pensi che Quentin Tarantino ne ha voluto una copia perché convinto che pochi abbiano raccontato così la mafia. Ma non ho voluto rimanere in America, perché lì avrei dovuto rinunciare a raccontare le vittime dell’ingiustizia con la massima autonomia. Non avrei fatto L’Agnese va a morire, per esempio, il film tratto dal romanzo di Renata Viganò».

Mai sedotto dal genere di Sergio Leone?
«No, anche perché sarebbe stata fatica inutile: quei western li sapeva fare solo lui. Aveva una conoscenza tecnica incredibile del cinema e soprattutto dell’uso della musica. Diceva sempre: “Un pistolero con due pistole è un idiota”. Gli americani restavano a bocca aperta davanti ai suoi lavori».

E il mondo felliniano lo ha frequentato?
«Una volta Fellini mi disse: “Carissimo, vieni che ti faccio fare l’aiuto regista”. Mi presentai ma di aiuto regista ce n’erano venti. Stessa cosa un mese dopo. Alla fine lo incontrai in via Veneto e gli dissi: “Federico, ho appena firmato un contratto che mi vieta di lavorare con te”. Che adorabile mentitore che era Fellini».

E Germi lo ha incontrato?
«Poco, ma pensi che, quando lui morì, il callista che frequento mi disse: “Sa, Pietro Germi le voleva molto bene”. Scoprii allora che io e Germi abbiamo condiviso il callista e che lui si confidava quando si faceva curare i piedi».

Giorgio Bassani criticò aspramente «Il giardino dei Finzi Contini» girato da Vittorio De Sica. E quando lei fece «Gli occhiali d’oro», nel 1987, come reagì lo scrittore?
«Era seduto in sala accanto a me alla prima. Mi tremavano le gambe: nel film avevo messo un dettaglio realistico che non c’era nel libro, ossia la scuola istituita nel ghetto. Quando si accesero le luci mi disse: “Lei ha capito il libro più di me che l’ho scritto”».

Quello nei confronti di Ennio Flaiano fu un tradimento dichiarato da parte sua?
«Sì perché il film tratto dal suo Tempo di Uccidere avrebbe dovuto essere girato in Etiopia ma a causa delle guerriglie alla fine andammo nello Sri Lanka».

Lei ha lavorato anche in grandi produzioni televisive, come «Marco Polo».
«Pensi che io e Vera siamo rimasti lontano da casa due anni. Siamo andati a girare in Mongolia quando lì ci si spostava con grande difficoltà da un posto all’altro. Che cosa abbiamo fatto per la maggior parte del tempo? Abbiamo aspettato. L’allestimento dei set, l’arrivo dei costumi, delle comparse, di tutto».

Montaldo, di che cosa ha maggiormente paura oggi?
«Di dimenticare le cose che ho vissuto. Oggi rivivo i ricordi proprio come se ogni giorno girassi un film solo per me».

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1 Comment

1 Comments

  1. Sandro Russo

    6 Settembre 2023 at 21:12

    Scambiando whatsapp con Gianni Sarro a proposito della morte di Giuliano Montaldo, gli ho detto di aver visto il suo ultimo film (forse) in cui lui era anche attore, con un giovane Andrea Carpenzano.
    Ma ‘il Maestro’ mi ha subito corretto: il film è Tutto quello che vuoi, del 2017, scritto e diretto da Francesco Bruni.
    Il suo ultimo film da regista è del 2011, L’industriale, con Favino. Nel film che dicevo io Giuliano Montaldo c’è, ma solo come attore.
    Ha ragione lui (Gianni), ma io avevo i miei motivi. Il personaggio di Montaldo è un vecchio poeta, che sta perdendo la memoria e ha bisogno di un accompagnatore (Carpenzano, appunto). Mantiene una memoria ‘fissata’ su alcune cose davvero importanti della sua vita: una innata gentilezza, una donna che vuole incontrare a tutti i costi, un tesoro nascosto in fondo al lago (che i ragazzi proveranno a recuperare).
    Propongo qui il trailer del film che tanto me lo ha ricordato:

    https://youtu.be/nC0aYwJWrKU?si=Q_3-6acm8bsox-tY

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