Esteri

L’America e noi. Il viaggio di Meloni in Usa

proposto da Sandro Russo

 

Un’occasione per ripensare ai rapporti dell’Italia con i suoi ingombranti alleati e alla nostra politica estera in generale. Con un pensiero (di rimpianto) per l’Europa.
Due articoli dalla stampa – da il Manifesto e da la Repubblica – fuori dalla retorica plaudente al successo della missione in America della presidente del Consiglio.
Letture impegnative ma necessarie.

Un vertice internazionale tira l’altro. E arrivano menzogne a grappolo
di Alberto Negri – da ‘Lunedì rosso’, rassegna on line degli articoli salienti della settimana da ‘Il Manifesto’

Commenti. L’incaricato Usa Crowley: l’Italia con l’accordo – mai attuato – sulla Via della seta «ha tutto da perdere». Ma Usa e Ue hanno un interscambio con Pechino che è dieci volte il «nostro»

Da Mosca a Washington, passando per Roma, siamo bombardati da menzogne a grappolo. Comincia a Roma l’incaricato d’affari americano Crowley (da tre anni – chissà perché – qui non c’è un ambasciatore Usa) il quale afferma alla tv di stato che l’Italia con l’accordo firmato con la Cina ha tutto da perdere: ma questo accordo sulla Via della Seta (tre paginette striminzite) non è stato mai attuato e gli Stati uniti e l’Unione europea hanno un interscambio con la Cina che è almeno dieci volte quello di Roma con Pechino.

Scorrendo le cifre, nel 2022 la Russia è solo al decimo posto nell’interscambio con la Cina (190 miliardi di dollari), al primo posto i Paesi Asean (975) la Ue (847) Usa (759) Corea del Sud (362) Giappone (357) Taiwan (329) Hong Kong (305), Italia (57).
La Cina, nonostante la guerra, rimane anche il maggior partner commerciale dell’Ucraina con un interscambio mensile di 2,3 miliardi di dollari. Ma è questo il dono che la presidente del consiglio Meloni ha portato nel suo incontro con Biden: stracciare un’intesa con i cinesi le cui cifre sono risibili, se non inesistenti, rispetto a quelle dei nostri alleati.

Eppure basta questo al nostro governo: fare un inchino alla Casa Bianca in cambio delle solite promesse americane di assegnare all’Italia un ruolo di primo piano nel Mediterraneo. Si tratta delle famosa “cabina di regia” che gli Usa, passando per Obama e Trump, avevano fatto balenare prima a Renzi, poi a Conte, quindi a Draghi e ora anche alla Meloni. Ovviamente non c’è stato né c‘è ora niente di concreto. Il nulla per il nulla.

Un momento, però. In oltre vent’anni l’Italia è stato il maggiore reggicoda mondiale degli Stati Uniti, complice delle più strampalate e sanguinose avventure militari inventate dagli americani.

Abbiamo partecipato ai raid su Belgrado nel’99, alla guerra in Afghanistan nel 2001, in Iraq nel 2003 e abbiamo persino bombardato Gheddafi nel 2011 che solo sei mesi prima (il 30 agosto 2010) ricevevamo a Roma con il tappeto rosso, la tenda beduina e un nugolo di escort, alla presenza delle maggiori autorità di stato e di governo, con cinquemila imprenditori con il cappello in mano davanti al rais libico.

È evidente che la nostra politica estera non esiste. Ditelo magari anche alla presidente del Consiglio Meloni che Mattei aveva ricevuto l’incarico per ordine degli Usa di liquidare l’Agip nel dopoguerra: non solo non lo fece ma fondò pure l’Eni. Fu a sua volta liquidato con un attentato al suo aereo nei cieli di Bascapè.

Dovete pure informarla che ogni volta che l’Italia ha tentato una propria politica energetica (dal gasdotto Blue Stream al South Stream) Washington è sempre intervenuta per bloccarla. Ma qui abbiamo la memoria corta, anzi cortissima.

L’Italia, con le sue dozzine di basi Nato, è l’alleato più docile che gli Stati Uniti potessero trovare al mondo: pronto a recepire, con l’accompagnamento dei nostri media, ogni sciocchezza proposta da Washington, comprese quelle guerre citate prima che sono state dei veri e propri disastri.

Certo anche noi ci mettiamo del nostro e tentiamo di contrabbandarlo come “politica estera”: dagli accordi di forniture belliche ad Al Sisi che hanno contribuito a liberare Patrick Zaki, all’intesa con la Tunisia sui migranti (che ricorda quella con la Libia) e che lascia la gente morire nel deserto ai confini libico-tunisini dove a Ras Jedir si fanno affari con uomini, merci e petrolio per 500 milioni di dollari l’anno. Ma questi, com’è risaputo, sono dettagli.

A proposito. A San Pietroburgo la riunione tra Russia e Africa – dove Putin annuncia la fornitura del grano gratis entro 3-4 mesi ai Paesi africani – è stata l’occasione di una calorosa stretta di mano tra Putin e Al Sisi (dal 2014 i due si sono visti ogni anno).

Ovvero tra il maggiore nemico dell’Ucraina e della Nato e uno dei più importanti alleati degli Stati Uniti che sta facendo la pace con Erdogan, altro autocrate, sultano dell’Alleanza Atlantica e anche amico (per opportunismo geopolitico) del leader russo.

La Russia è uno dei maggiori partner del Cairo, la Turchia è l’unico Paese della Nato che non ha messo sanzioni a Mosca. Biden, annotava il 25 luglio Peter Baker sul New York Times, ha presentato la sua politica estera come una «battaglia tra democrazia e autocrazia», in realtà liscia il pelo ai dittatori e non fa nulla per difendere la libertà e i diritti umani, dall’Egitto alla Turchia a Israele, all’India.

Giorgia Meloni non sa come spiegare niente di tutto questo. Si adegua, quindi scende a patti con il generale egiziano, con il “reiss” turco e l’inguardabile presidente tunisino Saied.

Tutto questo nella puerile speranza che gli Usa di Biden gli assegnino la famosa «cabina di regia» nel Mediterraneo e applaudano al suo Piano Mattei, che nessuno ha ancora visto. Buona fortuna a lei e un po’ anche a noi

[Di Alberti Negri, da il Manifesto del 28 luglio 2023]

L’editoriale
La destra e la terra di nessuno
di Ezio Mauro

Meloni si è svincolata, nel rapporto con gli Usa, da ogni concerto europeo, muovendosi da sola in un’illusione nazionalistica

Poco per volta la realtà si incarica di tagliare i nodi che la politica fatica a sciogliere. La visita di Giorgia Meloni alla Casa Bianca non è stata una foto-opportunity diplomatica ma un’occasione politica per definire la posizione internazionale dell’Italia, il suo ruolo nel campo occidentale, il suo tradizionale rapporto con gli Stati Uniti alla prova degli eventi che hanno inaugurato il nuovo secolo e le sue incognite. E quindi, di riflesso, è servita a mettere a fuoco l’identità del nostro Paese, i suoi obblighi e le sue ambizioni, il suo spazio di movimento in un mondo che deve reinventare ogni giorno il suo disegno perché tutto è precario e ogni equilibrio è provvisorio, da quando non c’è più una mappa condivisa che regola gli ambiti e i limiti degli Stati e funziona da sistema di controllo e di regolazione dei conflitti.

Un vero e proprio crash test di collaudo sulla rotta e sulla tenuta dell’Italia, dunque, preparato con attenzione dalle due parti in questi mesi di guerra, che per necessità hanno costretto la prassi ad anticipare la teoria, spingendo i Paesi del secondo anello, fuori dal fronte, a mettere in campo scelte e comportamenti dettati dall’urgenza e dalla drammaticità degli eventi.
Joe Biden sapeva dunque perfettamente di trovare in Giorgia Meloni un’alleata convinta della storica scelta atlantica italiana, come ha confermato la prova del fuoco della guerra in Ucraina. Ma proprio per questo il momento era giusto per fare punto e a capo e andare oltre, con le nuove domande che aprono la prossima stagione: fin dove arriva e dove porta l’atlantismo del governo Meloni, cosa c’è dopo la guerra che stiamo vivendo, e cosa resterà infine una volta superata l’emergenza? Il vertice si è svolto a metà strada tra queste due fasi, una delle quali è chiara e risolta, mentre l’altra è ancora piena di interrogativi in attesa di risposta.

Si può dire che, per quanto riguarda la collocazione dell’Italia in un mondo sottosopra dopo l’aggressione russa, la visita a Washington è stata un successo perché il rapporto di conoscenza e fiducia tra Biden e Meloni è una prima risposta alle domande e ai dubbi che la vittoria elettorale della destra estrema di memoria post-fascista aveva sollevato in tutto l’Occidente. Il paesaggio politico americano si è predisposto secondo lo schema prevedibile: pragmatismo utilitaristico da parte dell’amministrazione, che incassa la partnership convinta del governo di Roma al pacchetto di sanzioni a Mosca e di aiuti a Kiev, in un quadro in cui la guerra domina ancora l’orizzonte, assorbe tutte le preoccupazioni, gerarchizza le strategie; attenzione preoccupata da parte del mondo intellettuale e dalla cultura liberal, sensibili (ben più degli intellettuali italiani) alle zone d’ombra ancora presenti nel cammino di Meloni, al suo rifiuto di formulare un giudizio storico e politico netto sulla natura del fascismo come negazione della democrazia, limitandosi a condannare i singoli episodi più gravi del ventennio — come la deportazione degli ebrei — quasi fossero deviazioni dalla via maestra del regime, e non l’inevitabile prodotto della sua ideologia.

Biden ha privilegiato le scelte di politica estera dell’Italia, com’era ovvio col conflitto ancora aperto.
Ma al di là dell’interesse specifico degli Usa, quello del presidente americano è anche un riconoscimento della leadership personale di Meloni, che in questi mesi ha via via assorbito e sterilizzato le crepe centrifughe che attraversavano la coalizione governativa di destra aprendo spazi di ambiguità, legati alle indulgenze amichevoli di Berlusconi nei confronti di Putin e alla più solida relazione d’interessi di Salvini con il sottobosco del Cremlino, certificata dalle magliette-poster di Putin esibite dal leader della Lega sulla piazza Rossa. Non era dunque scontato che sotto la guida di una destra divisa da spinte contrapposte l’Italia non finisse alla deriva nell’Atlantico, cancellando la su a storia dal 1945 ad oggi per muoversi a tentoni tra velleità sproporzionate e tentazioni opportunistiche.
Meloni lo ha evitato, trascinandosi dietro l’intera maggioranza.

Insieme con la chiarezza della scelta atlantica, è tuttavia evidente il suo limite. Non è la nostra adesione ai valori occidentali che ci fa schierare nel fronte atlantico, infatti, ma al contrario è la nostra adesione alla Nato che ci definisce come occidentali: perché altro non c’è, nell’interpretazione di Meloni, come se la dimensione militare superasse gli ideali e non fosse invece al loro servizio, semplice strumento politico di un’alleanza che almeno in teoria poggia sulle idee di libertà, di giustizia, di deterrenza, di sicurezza cooperativa e di prevenzione delle crisi.

Questa interpretazione di destra conduce inevitabilmente a una politica a-occidentale: una volta soddisfatti i suoi obblighi di schieramento con la Nato, l’ingaggio dell’Italia è finito, il campo è libero per una moderna politique d’abord . Non si fa mai riferimento a una cornice europea che sostenga e indirizzi le scelte e le radichi nella vicenda comune del nostro continente, manca una lettura condivisa della storia d’Europa e delle lezioni che ne conseguono, non c’è un riconoscimento dello Stato di diritto come valore di riferimento, della civiltà dei diritti e delle istituzioni come fondamento della democrazia occidentale.

Per giungere a questa scelta occidentale ristretta, di pura natura militare, Meloni si è svincolata nel rapporto con gli Usa da ogni concerto europeo, muovendosi da sola, nell’illusione nazionalistica dell’unilateralismo di modello trumpiano: e ha potuto farlo, fin qui, protetta dall’emergenza in Ucraina. Ma dopo la guerra, e addirittura prima, nella costruzione delle condizioni di pace, le velleità nazionali avranno scarso peso. Occorrerà muoversi dentro la Ue per muovere l’Europa, portandola a dire la sua a qualunque tavolo di risoluzione dei conflitti, in nome dei suoi valori tradizionali, che sono costitutivi del concetto di Occidente quanto quelli degli Stati Uniti. Qui la destra italiana è in ritardo, ferma nella terra di nessuno: eppure la condivisione e l’affermazione di quei valori è molto semplicemente ciò che distingue, oggi, un’alleanza da un impero.

[Di Ezio Mauro, da la Repubblica del 31 luglio 2023]

 

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