E’ di ieri la notizia della scomparsa di Jane Birkin. La ricordiamo con le parole di Vito Nocera.
di Vito Nocera
A fissarla ora sulle tante fotografie che circolano in queste ore sembra che avesse da sempre scritto in faccia una leggerezza triste.
Leggera era leggera, una piuma.
Una piuma fatta di una bellezza fragile e inquieta.
Erano un bel gruppo quelle francesine degli anni 60 dalle quali – adolescenti – restammo folgorati.
La Spaak, Francoise Hardy, France Gall, la Vartan.
E poi Jane, che univa lo stile inglese al fascino francese.
Per loro fantasticammo sperando di incontrarne così anche nelle nostre prime timide feste da ballo.
Disinvolte, essenziali, capaci di una quasi spudorata e ignara aura di poesia.
Quelle che il sabato venivano a ballare con noi per far diventare liscia la frangia dovevano sudare.
Loro sembravano come baciate dalla sorte Libere e semplici.
Belle in modo diverso dalle icone dalla femminilità dirompente ancora in voga in quegli anni.
Tra loro la Birkin era la piu’ infantile, seno piatto, voce sottile, sguardo inafferrabile e obliquo.
Nessuna tra loro – e lei piu’ di tutte – sembrava dovesse avere mai fine.
Una gioventù, la loro come la nostra, che sembrava dovesse essere eterna.
In fondo per loro canzoni e cinema non furono mai una finzione, interpretavano loro stesse, il loro mito fanciullo.
Jane non cantava, sussurrava – non solo nel capolavoro popolarissimo di Gainsbourg.
Lì c’era una sensualita’ ferina tipica di quel grande chansonnier.
Vedo che piu’ d’uno, in queste ore di ricordi, mostra sorpresa a saperlo accanto alla bellissima Birkin.
Peccato, chi si sorprende forse non ha mai ascoltato l’irriverenza della musica di Serge, il suo genio irregolare fatto di eccessi e di talento.
Un mostro di sorprendente sensualita’.
Come sorprendente era il fascino sensuale di quella donna – bambina così priva di curve.
Se Lennon e Yoko inscenavano proteste pacifiste, come quando nella suite 702 dell’Hilton Hotel di Amsterdam ricevono i giornalisti stando a letto nella loro stanza d’albergo per una settimana, Jane e Serge testimoniano se stessi, la loro stessa esistenza condita con la fantasia.
Artisti che non avevano neppure bisogno di esibirsi.
La loro stessa vita era la rappresentazione.
Lì in quella casa di rue de Verneuil a Parigi dove condensarono folli anni d’amore.
Serge componeva motivi provocatori e intensi, Jane gli stava accanto.
O gli faceva da modella o da musa.
Oppure portava i suoi slanci di trasgressione ingenua e incolpevole nel cinema.
Nel grande cinema.
Ruoli in cui ci appariva sempre troppo lontana, distante.
Come fosse inconsapevole di quanto potesse essere devastante e inquietante la sua bellezza semplice.
Non esistenzialista ma quasi.
L’ Europa ebbe bisogno della sua freschezza, e delle migliaia di sigarette di Gainsbourg, per scardinare qualche modello antico ed aprire nuove vie.
Un destino in fondo un po’ comune a tutte quelle “francesine” dei nostri sogni adolescenti.
Lei e le altre simboli che sembravano indifferenti a quanto stavano incidendo nel cambiare costumi e culture.
Nessuna ha avuto poi una vita facile, tra loro Jane sembrava come segnata da sempre.
Come se tutto il suo ingenuo splendore le fosse stato donato per pareggiare drammi e dolore.
Dolore che poi sara’ stampato sul volto – per me bellissimo – della figlia Charlotte.
La Gainsbourg, il ritratto di suo padre eppure come lui capace di sedurre.
A conferma che bellezza e fascino sono un comportamento, un atteggiamento, un modo di stare al mondo.
Se poi tutto questo ha il tuo volto, Jane, si finisce diritti nella storia.
Lì stavi, lì stai, lì credo rimarrai.