Antropologia

Prove di vita

di Francesco De Luca

 

E’ maggio, dalla terra s’alza polvere profumata: è il vento appiccicoso di scirocco che si impregna degli effluvi della ginestra, passando stancamente. Viene dal mare e avvolge, ottundendo i frulli agitati degli uccelli migranti che hanno solcato il mediterraneo nel balzo di una notte. Al mattino le corolle e i fusti e le foglie sono bagnati come da pioggia.

Gocciolano le mani alla bambina nel cogliere i fiori da portare in chiesa alla Madonna. E’ questo il  ‘fioretto’ che le ha chiesto la suora. La bimba infastidisce la mamma per sapere quali gambi tagliare. Le indica le fresie, le calle, gli anemoni. Dove già danzano insistenti gli insetti. Prede ambite dai voraci uccelli che, ora qui ora lì, saltellano eccitati.

Il nonno allora accortamente prepara le trappole. Va per le  ‘catene’, smuove la terra, approntando una base per la tagliola, dove il verme si agita nella convulsione dell’agonia, attirando fra le morse di ferro il collo gentile dei volatili.

Essi verranno spennati sull’aia al riparo del muretto. Ché non si spargano le piume per ogni dove, portati da un soffio.

Dalla mamma vengono ripuliti dalle interiora, che il gatto attende pazientemente e miagolante.

Saranno passati in padella quel tanto che ferma il deterioramento della carne, e poi messi a giacere in un barattolo di vetro sotto olio. Quando in estate verrà il figlio dal collegio saranno ripassati in cottura con la cipolla. Perché anche lui, ora lontano, possa godere di quanto la breve primavera reca. Li assaporerà come una carezza. Quel figlio che cresce separato dagli affetti ritorna all’isola per le vacanze, con l’aria timida e severa dello studente. Nulla lo soddisfa perché nessuna realtà lo contiene. La madre gli coglie negli occhi il desiderio celato di risentire gli odori, i rumori, i gusti della casa. E lo vizia come sa, senza moine. Quel ragazzo avrà un futuro di rosa. Troppo presto è stato staccato dagli abbracci. Li chiederà al suo destino che lo accontenterà non senza avergli presentato il prezzo.

Si cena quando ancora lo scuro della sera non è calato e i gabbiani si attardano nell’ultimo volo di comodo prima di ritornare alle nascoste tane notturne. La porta della cucina è aperta sugli affrettati attracchi nel porto e sui passanti nel vicolo coi quali ci si saluta e si abbozza una conversazione.

Le luci si accendono ad una ad una punteggiando le alture e le contrade dell’isola. La sera segue la scia del battello che viene dal continente. La sua sagoma scura irrompe fra le scogliere del porto, rinnovando le speranze degli isolani. Ed essi rinunciano alla solitudine e si dispongono all’accoglienza. Rinnovando così l’altalenante stato della loro condizione che li vede ora intristiti nei rapporti obbligati e ora fiduciosi nei nuovi venuti. Soltanto i vecchi sanno che dal mare  non bisogna attendersi sicurezze perché è il capriccio a guidarlo. Lo guardano infatti con l’occhio spento. Seduti fuori l’uscio assaporano l’aria che muove le nuvole e annunciano il tempo di domani.

 

Nota: tratto dal libro Isolaitudine – Edizioni Odisseo – Ponza 1994 – pagg 1 e 2.

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