di Francesco De Luca
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Domani mattina bisogna partire. Alle 5 e 30.
Vado a letto con una tensione latente. Avrò sonni interrotti. Mi acculo sotto le coperte e mi sovvengono le partenze da ragazzo. Alle ore 4 e 30, sveglia alle 3. Bisognava lasciare la famiglia per il collegio.
Ne è passato di tempo… è vero… ma nella mente ritornano quei momenti.
Bisognava partire perché quella era stata la strada voluta dai genitori. Benedetta la loro intenzione… ma sofferta quella decisione. Bisognerà frapporre chilometri di mare fra la casa, sorgente dell’affetto, e il luogo del proprio dovere.
E il mare, sempre lui, già sta borbottando malumori dietro la spinta del vento.
Qualcosa è caduta fuori nell’aia e il rumore mi fa alzare. È inutile combattere con la propria tensione. Si è perdenti.
Il ponente sta infatti alzandosi e spero di essere a Formia quando sarà all’apice della rabbia.
Chiudo la porta e mi avvio alla nave. In un baleno rivedo i volti dei miei genitori, la loro speranza, la mia pena nel soddisfare le loro aspettative.
Mi attende il salone della nave con quelle dispettose poltroncine prive di poggiatesta. Il capo si reclina per trovare una postura che permetta al sonno di calare sulla mente in subbuglio e invece nel reclinare si ritrova privo di sostegno e il sonno fugge via.
Non c’è neanche un coetaneo con cui scambiare frasi. Quelli che mi accompagnavano da ragazzo sono lontani. Alcuni persi nel flusso del tempo… Franco, Silverio, Antonio… altri distanti nello spazio e nelle incombenze.
Adagio lo sguardo su chi mi è accanto. La mia compagna di vita. Senza parole ci diamo conforto, con tenerezza e sicurezza, perché ciascuno è la cura dell’altro.
La nave pigramente si lascia dietro la notte e affronta i barlumi del mattino. Ha impiegato tre ore per portarsi al sicuro dalle intemperanze del ponente. Tre lunghe ore!
In esse ho vissuto la temerarietà dell’età matura. Questo viaggio lo abbiamo affrontato con la famiglia e vinto tante volte sotto la spinta dell’impegno lavorativo, badando alla serenità dei figli piccoli. E oggi ne valuto debolezze e sfrontatezze. Esse sono e sono state le ragioni per cui sono fiero di essere isolano e consapevole della mia identità.
Ciascuno vive l’isola con la propria sensibilità, e ciascuno vive la sua terra come sa fare. Io penso che chi ha motivo di sentirla aspra, amara, bisognosa d’essere accudita è il più sincero dei Ponzesi.
Possiamo essere divisi su tutto… non sull’appartenenza. Da essa e con essa va nutrito il rapporto isola-isolano.
Non è il benessere che forgia l’acciaio dell’appartenenza, non l’appropriarsi delle bellezze di cui godiamo senza averne diritto: l’isolano è un inappagato del suo Eden.
E così mi ritrovo a 77 anni a Formia, gonfio di insoddisfazione, maldisposto a pagare lo scotto alla vetustà del corpo che esige analisi e TAC, sognante quell’upupa che ieri mattina si è levata sotto gli occhi, rizzando in testa la sua corona di penne. Irritata dal fastidio.
Questa è la vita. In essa credo.