segnalato da Sandro Russo
Qualche settimana fa abbiamo dato notizia – leggi qui – dell’uscita del trimestrale che seguiamo da sempre, fin dal suo primo numero nove anni fa, per una certa condivisione della visione del mondo e della Natura e anche per conoscenza personale di qualcuno dei redattori della rivista. Sfogliata rapidamente e messa da parte. A distanza siamo ritornati a leggere più approfonditamente alcuni articoli. Proponiamo qui l’editoriale – non aggiornato ai fatti più recenti che ci hanno coinvolto – della direttrice della rivista, Fausta Cotone che ricordo anche compagna della scuola di organetto di Ambrogio Sparagna, decenni e decenni fa.
S. R.
Emozioni in volo
di Fausta Cotone
Sono passati due mesi dall’inizio del 2023 e già tante cose sono successe. Alcuni personaggi famosi ci hanno abbandonato, lasciando vuoto e incredulità. Se ne è andato Gianluca Vialli, di morte annunciata e temuta dalle migliaia di post che hanno mitragliato i social nelle settimane precedenti. L’avevano preceduto di pochi giorni Mihajlovic e Pelè, altri due grandi eroi moderni, pianti (la milioni di persone in tutto il mondo. E poi Jeff Beck, grande chitarrista sbocciato negli anni ’60 con gli Yardbirds, Lisa Marie Presley, Gina Lollobrigida, David Crosby e tanti altri ancora. La cifra di queste morti è un vuoto collettivo, percepito magari con diversa intensità da persona a persona ma che, in ogni caso, crea sgomento e inquietudine.
Il dolore non è vissuto allo stesso modo in tutte le culture. Come ricorda Umberto Galimberti, la cultura occidentale di origine giudaico-cristiana percepisce il dolore come qualcosa di cui dobbiamo liberarci, perché è in fondo una sorta di espiazione, uno strumento di purificazione dal peccato di essere nati al posto di qualcun altro. Per gli antichi Greci invece la Natura, a cui è affidata la sussistenza della specie, ha bisogno della morte degli individui, dato che la sopravvivenza di ogni specie necessita di soggetti in grado di riprodursi. Perciò la morte dell’individuo è l’ordine della Natura. E dunque il dolore va accettato come parte della vita esattamente come la felicità.
Resta il fatto che il dolore per la morte ci colpisce in profondità e chiunque di noi – almeno qui in Occidente nel ventunesimo secolo – cerca di superarlo il prima possibile per non soffrire più. Il lutto collettivo è un fenomeno naturale, ma impressiona quanto sia pericolosamente amplificato oggi dagli infiniti mezzi di comunicazione che abbiamo ormai a disposizione. Si raggiungono livelli di emotività quasi estremi, come se chi è morto fosse un parente o un amico intimo e il dolore sembra insuperabile. Invece dopo qualche giorno… tutto svanito, le anime infrante sono guarite e in quattro e quattr’otto si ricomincia. I social si riempiono di altre vicende, chi vince un premio, chi batte un record, chi si infiamma per un delitto. Ma è giusto che tutto si bruci così in fretta? Quel lutto collettivo era vero o era semplicemente indotto da un ossessionante ritornello rimbalzato da facebook a instagram, da un telegiornale a uno speciale TV, da un sito di informazione nazionale ad una rivista di gossip? Che tipo di società è quella in cui viviamo, nella quale a volte sembra contare soprattutto il mostrare l’amplificazione di sentimenti che forse non riusciamo più a coltivare davvero nella nostra intimità? Oggi tutti disperati, domani tutti felici. E così l’onda emotiva che ci aveva travolto solo tre anni fa per l’arrivo del Covid, con tutte le implicazioni relative ai rischi dello spillover, è stata inghiottita nel nulla. Per non parlare della terribile stagione degli incendi in Australia, in California e anche qui da noi, quando si gridava all’emergenza ambientale e fiorivano ovunque immagini apocalittiche da finimondo. E le nostre responsabilità vanno a farsi friggere, la capacità di empatia svanisce. Dovremmo cominciare a riflettere seriamente sul modello di società in cui viviamo. E dovremmo farlo presto.