di Pasquale Scarpati
Per la prima parte, leggi qui
Per me non era usuale salire alla Guardia perché “fuori mano”. Il mio mondo era Sant’Antonio e dintorni con qualche sortita a Chiaia di Luna, ma per la via vecchia. La Panoramica non esisteva ancora o era in costruzione. Immaginate come fosse tutta quella zona! La Padura e i Guarini (con il suo “fascio” littorio ben in vista – sotto, foto recente di quel che ne resta).
Arrivare sopra Giancos ed inoltrarsi in mezzo a quelle catene! E tutta quella zona che sale su verso ’u Chian’ ’i riol’, che divenne, dopo la costruzione della Panoramica, la nostra zona (da adolescenti) pe’ fa’ ’u pascone!
Tutte le domeniche i miei mi trascinavano – molto riluttante in verità – verso i Conti (foto), perché era d’obbligo andare a trovare nonna Tummetella.
Unica consolazione: i miei cugini Giuseppe e Mario. Ambedue quasi coetanei. Il primo spesso si accompagnava con noi insieme a zia Marietta da Giancos, il secondo lo trovavamo quasi sempre già a casa di nonna. Già altre volte ho scritto dei nostri “divertimenti” che finivano quasi sempre a… “mazzate” tra noi e da parte degli adulti. Ma io non ci volevo andare perché, tra l’altro, quella casa lassù, quasi alla fine della strada dei Conti la consideravo ‘lontano’… anzi lontanissimo. Mi spaventava tutta quella salita!
La via vecchia: uffà! E che dire di quella nuova… ancora più lunga! Le Forna: un paese all’altro capo del mondo. – Ma come fanno quelli che ci vanno a… piedi? – mi chiedevo.
La percezione delle distanze! Ricordo. Quando i miei mi dicevano di andare da zia Sabettina a Santa Maria per prendere ’a cucuzzella (zucchetta), io vivacemente protestavo perché era lontanissima.
– E chi ci arriva a Santa Maria! – protestavo. ’U ’ruttone: lunghissimo! Non finiva mai! Zi’ Sabettina era l’unica in famiglia che produceva simili ortaggi che hanno bisogno di molta acqua. Lei e zi’ Michele, coltivavano ’na pezza (gli appezzamenti di terra così erano chiamati a Santa Maria) con l’acqua sorgiva (ma salmastra) che captava con il sistema arabo: il secchio appeso all’estremità di una lunga asta mentre dall’altra estremità vi era una pietra come contrappeso: si calava il secchio nel pozzo, lo si riempiva; questo senza alcuna fatica, poi veniva su per effetto del contrappeso [sul sito ne ha scritto Domenico Musco: leggi qui – ndr].
Quando giunse il furgone Moto Guzzi spesso chiedevo a zio Peppe o a Carlo, mio fratello, di portarmi con loro. Ma non di rado le loro erano promesse da… marinai. Svegliandomi la mattina, già trovavo che erano partiti. Ciò mi rendeva molto nervoso e me la prendevo con i miei perché non mi avevano svegliato oppure essi non lo avevano detto a chi partiva per il “lungo” viaggio verso la… Calacaparra.
Ma se ci avessi pensato, avrei potuto vestirmi in fretta e raggiungerli o da Cummarella a Santa Maria (era la prima tappa) oppure da zi’ Giro un poco più avanti prima della grotta del Serpente, oppure all’incrocio della discesa verso i Conti da sopra la via Nuova.
A parte il tempo della sosta, il furgone procedeva molto ma molto lentamente perché stracarico. Aveva le marce fino alla quarta ed in più – tra le marce – la riduzione che si innestava con un pedale. Se da una parte si aumentava la potenza del motore dall’altra la velocità si riduceva ancora. Quella strada era per me il…. non plus ultra delle strade. Non mi era possibile paragonarla né a strade statali né tanto meno alle autostrade (che allora erano in costruzione), semplicemente perché… non ne avevo né idea né conoscenza; non le avrei potuto vedere, infatti, né su… internet né in foto né sui libri dove le foto erano centellinate se non assenti del tutto. La potevo paragonare soltanto ai viottoli, alle stradine e ai sentieri dell’Isola e pertanto mi sembrava larghissima e lunghissima: oggi direi la… regina viarum.
Il mezzo saliva, rombando, assordante, lentamente. Ma a me sembrava raggiungesse chissà quale velocità perché, guardando l’asfalto, lo vedevo passare velocemente sotto le ruote. Altri mezzi non li avevo sperimentati se non… il cavallo di san Francesco (a piedi) oppure, ma solo qualche volta, la schiena di un asino.
Sui camion di Francisc’ ’u Lup’ o Nicola ’a Checca era salito soltanto per sedermi in cabina quel tanto per sentire l’odore di nafta o vedere la strada dall’alto tra i vetri e sentirmi raccolto in quello strano “salotto”. Notavo l’asta per le marce ma soprattutto lo sterzo su cui i conducenti si poggiavano facendo una gran forza ogni qual volta dovevano effettuare una manovra di inversione di marcia. Non avendo, infatti, il servosterzo facevano muovere in pochino avanti e indietro il pesante mezzo per potere rendere lo sterzo un poco più leggero.
Bisognava essere abbastanza abili, soprattutto negli angusti spazi della strada dell’Isola! La curva d’u Cavone mi sembrava amplissima. Quella stretta, a gomito, che dopo i Conti porta a Trebbiente introduceva verso l’ignoto perché non si sapeva cosa si trovasse al di là di quella. Il clacson difficilmente si adoperava. Anzi no. Si adoperava lungamente, ma per richiamare la gente ai vari incroci: quello dei Conti, quello di ’ncopp’u camp’ per far salire le persone da ’basce ’u camp’, quello un poco più giù verso Tore Romano, prima di arrivare da Brigida.
Dopo Trebbiente, verso il campo inglese, mi sembrava già di respirare un’altra aria: da… furastiere.
’I Fforne: un altro paese (sopra, foto dell’agglomerato principale con la chiesa). Altro idioma, altri costumi. La maggior parte delle botteghe aveva, sul retro, la casa dove si viveva per cui, qualche volta, ci veniva offerto ciò che in quel momento usciva caldo caldo dal forno: una fetta di panettone. Si poteva mai dire di no? Quella bella fetta lievitata, alta e gialla (uova di galline che razzolando, beccavano anche il granturco); odore fragrante; ancora caldo soffice al tatto. Leggero, si scioglieva in bocca; insieme al sapore dolce si avvertiva immancabile anche quello di un poco di limone. Gli immancabili complimenti e la signora che, in modo sbrigativo, si schermiva ma intimamente era contenta. Gli altri odori a cui già non si faceva caso: baccalà, provolone, alici salate, saponi vari, in quel momento erano ignorati, svanivano; così non si faceva caso anche alla polvere sottile della vrenna (crusca), delle patate poste nelle sacchette da 50 kg., dei legumi che pure era persistente nell’aria simile a nebbia che si sta per diradare. Inoltre era frequente che la merce venisse lasciata da sola sulla strada in attesa che la venisse a prendere chi l’aveva ordinata. Poche persone: uomini e donne con i segni della fatica sulle mani e nel volto.
’A Calacaparra (foto): la fine del mondo o per meglio dire la fine del ‘mio’ mondo.
Oggi quelle che mi sembravano distanze siderali, sono diventate… niente. Un po’ perché abito altrove e sono abituato ad altri spazi, un po’ per i mezzi più veloci.
Non so quali sensazioni abbiano quelli che abitano stabilmente nell’Isola. Posso soltanto pensare che mentre allora distanze brevi erano percorse in tempi lunghi oggi distanze lunghe anzi lunghissime sono percorse in tempi brevi anzi brevissimi.
Penso che tutto questo abbia influito sull’uso dei cinque sensi. Mentre prima, infatti, essi si arricchivano con equilibrio anzi oserei dire ‘armoniosamente’, oggi sembra che si avverte uno sbilanciamento a favore della vista e dell’udito. Il gusto, il tatto e soprattutto l’olfatto sono sospinti in un angolo. Ciò potrebbe indurre a dare molto più spazio all’immateriale: molto appariscente ma poco di sostanza; e potrebbe essere la causa del sentirsi “vuoti”; che genera il senso di vuoto e di solitudine. E fa da concausa di questa inquietudine che pervade la vita. Sarà possibile, un domani, sentire in tv o su internet o nei film oltre ai suoni anche gli odori? Immaginate un po’ quale potrebbe essere la percezione nell’avvertire, ad esempio, oltre al rombo del cannone anche l’odore acre del fumo che si sprigiona dalle macerie e la polvere sottile che penetra nelle narici e lascia senza respiro. Forse, mi dico, percependo più a fondo ciò che realmente accade, capiremmo meglio. Ma se lo facessimo già nel nostro piccolo sarebbe un grosso passo avanti nella vera percezione e forse si capirebbe meglio il mondo che sembra divenuto più vicino, come dire circostante, ma paradossalmente risulta sempre più lontano. Si potrebbe iniziare con un contatto più assiduo e profondo, non occasionale, con la Natura…
Per Napoli
Fin da piccolo a me è piaciuto sempre viaggiare, curiosare, scoprire. Quando ’u vapore entrava nel porto rimanevo sempre affascinato dal ‘baffo’ sulla prua e seguivo con attenzione tutta la lenta manovra di attracco. Quando partiva lo seguivo con gli occhi fin quasi all’altezza di Cala d’Inferno. Immaginavo chissà cosa: terre sconosciute, vasti orizzonti e qualcosa di indefinito. Quando incominciai a partire a me non piaceva andare diritto per Formia. Come già ho scritto: era notte e poi non c’era da vedere quasi nulla se non il Circeo in lontananza. Viaggio monotono. A me piaceva la ‘mini- crociera’ per Napoli. Ma questa raramente la si poteva fare perché la nave partiva di domenica mattina ed i miei non amavano perdere una giornata di mare ed anche di domenica, anche se, allora, il commercio avveniva quasi tutto da e per Napoli. Ma qualche volta forse per accontentarmi o forse perché avevano da sbrigare qualche loro affare si prendeva la nave di domenica mattina.
Innanzitutto era un sollievo perché si partiva alle 7 (era l’unico orario un poco più ‘decente’) e non alle 4 e mezza o alle 5 (il giovedì per il… giro di Ventotene). La nave drizzava la prua verso Ventotene (foto: scogli a Ventotene, sfondo Santo Stefano) dove giungeva dopo due ore di navigazione. Intanto passava nei presso della “Botte” (foto, 8 miglia a sud-est di Ponza) dove si diceva venissero pescate le pregiate pezzogne che nonna arrostiva sui carboni cospargendole con olio e limone con un rametto di prezzemolo. Si diceva anche che fungesse da bersaglio nell’addestramento della navi da guerra. Ma non so se ciò sia vero.
Allungavo l’occhio (salendo a volte alla chetichella su in tolda in prima classe) per vedere come, lentamente, si avvicinasse la sorella più piccola che si allunga brevemente sull’acqua. In seguito seppi che si chiamano punta Eolo e punta dell’Arco.
La nave rasentava la roccia scura, “scarrupata”, selvaggia e poi virava a destra per entrare nel porticciolo. Ciò che mi meravigliava era quella spiaggia insita nel porto. Mi sembrava un fatto inusuale. Anche se noi avevamo Sant’Antonio e Giancos e Santa Maria, ma quelle erano un po’ defilate!
Poi guardavo le case multicolori che si arrampicavano su su ed immaginavo – al di là di quelle – ampie campagne coltivate a fave e lenticchie perché nonna Tummetella me ne parlava e diceva che erano saporitissime come quelle di Ponza con la sola differenza che in quelle di Ventotene non si formava ’u pappece (la farfallina o tonchio della lenticchia – Bruchus signaticornis). Così diceva. Pensavo: chissà se qualche volta ci andrò!
Neppure lontanamente immaginavo che, oramai maturo, ci sarei andato, volentieri, tantissime volte! Ne ho un piacevolissimo ricordo sia dell’isola sia dei suoi abitanti! In quel momento, però, mi sembrava un evento molto ma molto remoto dal momento che l’isola era servita dalla nave soltanto quattro volte la settimana, due per l’andata e due per il ritorno: la domenica ed il giovedì per la Terraferma (rispettivamente per Napoli e Formia) ed il martedì ed il venerdì (da Napoli e da Formia).
Se noi per i collegamenti eravamo inguaiati… chill’ stéven’ a i pied’ ’i crist’!
Forse a causa dei vicini di casa, poco graditi! Ma in quel momento questi pensieri erano remoti, lontanissimi da me; sia per la giovane età sia perché quando si vive il presente difficilmente si riesce ad analizzare il vissuto.
Chissà se gli adulti si lamentavano di questa situazione nei collegamenti! O quella era la loro vita e, rassegnandosi, si affidavano alla volontà del Signore o dei… signori! La mia attenzione si spostava sui numerosi passeggeri che si imbarcavano. Poi scendevo per sedermi al mio posto che era stato tenuto occupato da mamma.
Partiti di là, fatto mezzo miglio, altra tappa. Questa volta in rada.
Tramestio a bordo: sul fianco della nave si calava la scaletta. Più che scendere, salivano passeggeri, a volte in grossi ceppi di ferro bene in vista, preceduti e seguiti da uomini in divisa. Prendevano posto su panche o poltrone già riservate.
Si ripartiva e si giungeva nel porto di Forio d’Ischia. Altra sosta e poi via per Casamicciola. Ancora in rada.
Si era, già, in tarda mattinata e pertanto a bordo si vedeva un certo movimento di qualche marinaio che si avviava verso la piccola cucina situata al centro della nave. Dopo un po’ si avvertiva il profumo acre (o puzzo per alcuni) della cipolla ampiamente soffritta. A qualcuno ciò faceva venire già l’acquolina in bocca per cui si vedevano mani rovistare nelle casacche o nelle borse e tirar fuori grosse fette di pane con companatico. Dopo i soliti convenevoli, si addentavano con gusto. Poi ci si attaccava ad una bottiglia d’acqua rigorosamente di vetro o ad una borraccia. Qualcuno tirava fuori anche una bottiglia di vino e lo magnificava, offrendolo ai presenti. Quel piccolissimo lavandino di ferro smaltato che stava lì di fronte la cucina con il suo piccolo rubinetto gocciolante, rimaneva solo e reietto. D’altronde non poteva essere diversamente; una piccola targhetta (sic!) avvertiva: acqua non potabile!
Il porto di Ischia (foto) mi dava l’impressione di una certa… eleganza. Ben raccolto. Pareva quasi che volesse abbracciare la nave o che la stessa si volesse far abbracciare.
Poi via per Procida (foto) e qui qualcuno/a potrebbe entrare più nei dettagli. Ma si era già svegli da tempo ed il viaggio si faceva sentire e non si vedeva l’ora di arrivare.
Gli… ‘animatori’ della crociera quasi tacevano. Le voci erano andate via via scemando, erano divenute più sommesse: un brusio. Qualcuno aveva tirato fuori un cuscino o qualcosa che facesse da cuscino e, appoggiata la testa in qualche angolo, godeva beatamente della… digestione, incurante o oramai avvezzo a tutti i rumori.
Ci voleva ancora un bel pezzo per attraccare al molo Beverello (foto). La costa lentamente scivolava ma qualcuno scivolava anche lui… ma nel sonno. E come Ulisse, stanco delle peripezie, sistematicamente si addormentava in vista della sua Itaca, così quel qualcuno si lasciava conciliare dal sonno, anche lui oramai avvezzo, a tutti i rumori e ai “profumi” di bordo, anche a quelli del bagno che emanava i suoi effluvi ogni qualvolta si apriva la porticina e che, ritualmente, bisognava ‘visitare prima di lasciare la nave.
Alle due del pomeriggio la stretta passerella veniva issata a poppa della nave. Prima di scendere ci si rassettava un po’, si salutavano i vecchi ed i nuovi amici e poi Napoli inghiottiva tutti nel suo gorgo tra lo sferragliare e lo scampanellio dei tram e le auto che sfrecciavano per via Marina.
Che dire? In quelle, lente, sette ore di mare si mescolava l’umanità gioiosa e dolente. Il pasto era self service condito con i profumi provenienti dalla cucina. La musica proveniva dai motori rombanti. Si ballava se nel frattempo ‘scendeva’ un po’ di marittuolo.
Il gioco era rappresentato dalle immancabili carte. L’animazione costituita dalle chiacchiere, a volte anche piuttosto animate, probabilmente vertenti sui problemi locali o sui pettegolezzi. Si incontravano vecchi amici e se ne facevano di nuovi e si riallacciavano anche lontane parentele. Ma c’erano anche quelli che da soli stavano seduti in un angolo e a cui si dava una fugace occhiata o si cercava di scansare! Poverini: carcerati e carcerieri ambedue uniti nella medesima sofferenza: lontani dalle famiglie!
Non è solo la distanza che genera esperienza: stare insieme in poche ore e in poco spazio può avere una certa valenza, se però si conosce come assaporare ciò che ci circonda e ci viene offerto da Colui che ha pensato di donarcelo gratuitamente, pensa Pasquale
[Le distanze (2). Fine]
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Antonio Corti
17 Febbraio 2023 at 13:57
Grazie di cuore, Pasquale, per il racconto delle tue avventure. Io, invece, non potevo andare per mare perché mia madre Diana (bolognese) aveva il terrore dell’acqua e quindi, quando ero libero dalla scuola, mi affidava a mio padre Pietro che dirigeva la stazione della Aeronautica sul monte La Guardia. Si partiva di primo mattino, mio padre vestito da cacciatore col fucile a tracolla, si prendeva la via degli Scotti, ci fermavano dalla commarella Concettina o dalla commarona Concettona, passavamo la cappellina votiva e poi sempre più in alto. Intanto mentre mio padre cercava qualche preda io raccoglievo pietre di riolite perché mi avevano detto che erano aurifere. Una volta arrivati in cima mio padre si dedicava al suo lavoro e io mi mettevo a spaccare pietre. Immaginate però che la gioia più grande era la magnifica vista di cui si godeva da lassù .