Storia

27 gennaio 2023. La Giornata della Memoria

a cura della Redazione

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Ogni anno che passa la memoria della Shoah si fa più distante, ogni anno sono di meno i testimoni diretti di quella tragedia.
Proprio mentre con più forza dovrebbe essere ricordato il passato, dato il riaffiorare degli stessi germi di follia – razzismo, guerre, disuguaglianze – che poco più di ottant’anni fa causarono quelle sciagure, la memoria si fa labile.
Le parole di Liliana Segre, una delle ultime sopravvissute, testimone lucidissima e preziosa di quegli eventi siano la chiave della rievocazione di quest’anno:

“Quando uno è così vecchio come me e ha visto prima l’orrore, e poi, arriva a sentire che si nega addirittura quel che è stato – ed è così da tanti anni, dalla fine della guerra circa – a un certo punto, la coscienza si sveglia. E ritiene che fra qualche anno della Shoah ci sarà una riga sui libri di storia, e poi nemmeno quella”.
“Il giorno della Memoria è inflazionato, la gente è stufa di sentire parlare degli ebrei. E anche io fra un poco, toglierò il disturbo, visto che non posso nemmeno salire sul tram che porterà la scritta “Memoriale della Shoah”, perché devo girare con la scorta a causa delle minacce che ricevo”.
(…)
Poi invita a dare più importanza alle Pietre di inciampo: “Per me dovrebbero essere un pochino più alte del livello della strada, in modo che ci si possa mettere un fiore, o una pietra, come nei cimiteri ebraici. Mi spiace che vengano nascoste da bici, macchine in sosta, quando non vernice nera, che vuol dire ‘fai schifo, tu che sei stato condannato per la colpa di esser nato. Ecco, penso sia importante portare i ragazzi a conoscere questi nomi, che è veramente essere te stesso, anche se solo una persona su mille se ne accorgerà, lì c’è il nome di una persona che ha fatto la scelta”.
“Ci sono migliaia di Pietre di inciampo in tutta Europa, invitano a fermarsi, a dire una preghiera, a dire quel nome. Come le mie pietre sacre, quelle posate per mio padre e i miei nonni: sono la tomba che non c’è stata permessa. Ma penso anche alle pietre dedicate ai bambini. Ce n’è una anche per un neonato deportato il giorno dopo esser nato. Davanti al bambino innocente, tutto il mondo si deve inchinare. E dire: mai più!”

Sull’importanza di persistere nel ricordo riportiamo qui di seguito tre brevi pareri – di Michele Serra, Corrado Augias, Sonia Edwards. Metterli insieme e condividerli è il nostro contributo alla Giornata della Memoria.
N.B. – Tutti e tre gli articoli sono stati ripresi da la Repubblica del 24 gennaio 2023.
La Redazione

L’amaca
Basta anche una sola persona
di Michele Serra

A pochi passi dal Giorno della Memoria, Liliana Segre sembra sopraffatta da una comprensibile stanchezza.
«La gente non ne può più di sentir parlare di ebrei, tra pochi anni sulla Shoah ci sarà, nei libri di storia, appena una riga».
Chissà se basta a mitigare la sua amarezza dirle che, anche grazie a lei, milioni di italiani (compresi moltissimi ragazzi delle scuole) oggi sanno, su quella immane strage di innocenti, molto più di quanto si sapesse nel Dopoguerra, e poi per decenni, fino a non molti anni fa.
Cara Liliana, da bambino abitavo proprio davanti a casa tua, a Milano, e niente sapevo della tua storia e di quella di migliaia di milanesi deportati.
Non c’erano pietre di inciampo, non c’era giorno della memoria, la gente voleva solo dimenticare la guerra, lavorare, rimuovere il passato.
Ho fatto la tua stessa scuola elementare, la Ruffini, e niente e nessuno, in quella scuola, parlava dei bambini che appena vent’anni prima, da un giorno all’altro, avevano lasciato i banchi vuoti. Quando l’Equipe 84 incise Auschwitz di Francesco Guccini (1966, era la facciata B di Bang Bang), in pochi sapevamo il significato di quel nome. “Son morto ch’ero bambino, son morto con altri cento”: non credo che in molti, da ragazzini, chiesero spiegazioni ai loro genitori o ai loro insegnanti.
Se anche fosse una minoranza quella che ora sa, quella che conserva memoria, è una minoranza molto larga, e molto agguerrita. Di tutte le età, e non disposta a dimenticare. Della maggioranza di ignavi, o di menefreghisti, non curarti più del necessario. La storia, da sempre, viene fatta da minoranze coscienti e attive. Tu sei l’esempio vivente di quello che può fare, in onore della verità, anche una persona sola.


Il commento
Una nuova banalità del male
di Corrado Augias

Saturazione? È possibile. Tra le ultime uscite editoriali natalizie ho contato cinque titoli che rievocavano storie di ebrei scampati, o non scampati, alla Shoah. Qualcuno può cominciare a pensare che si stia esagerando, che un’eccessiva insistenza nuoccia. Forse però bisognerebbe chiedersi non se ci sia un eccesso di memorie, bensì a che cosa serva la memoria.
La conoscenza dello sterminio nel dopoguerra s’è avviata lentamente, ci sono voluti anni perché si avesse piena conoscenza delle modalità e delle dimensioni dell’orrore. Molti erano interessati a nasconderle, compresi spesso gli ex internati che si vergognavano a riferire ciò che avevano dovuto subire, poveri esseri inermi testimoni del macello. Per la verità c’era stato un evento di portata mondiale che avrebbe potuto aprire gli occhi a molti. Il processo che a Norimberga nel 1946 aveva messo sotto accusa alcuni criminali nazisti. Fu solo in parte così. Quel processo venne criticato da chi aveva interesse a sostenere che si trattava della solita vendetta che i vincitori d’una guerra esercitano nei confronti dei vinti.

Questo ridusse il suo valore d’ammonimento. Poi ci fu un altro processo, venne celebrato a Gerusalemme nel 1961, imputato Adolf Eichmann. Due procedimenti diversi. Nel primo vennero per lo più esaminati fascicoli, documenti, più che le storie di esseri umani emersero le modalità generali, statistiche, dell’orrore. A Gerusalemme invece risuonarono soprattutto le testimonianze dal vivo dei superstiti che finalmente ebbero la forza di gridare la misura dei loro patimenti.

Spesso era difficile ascoltare quelle testimonianze, tale il livello che la “banalità del male” aveva potuto toccare in quei luoghi che erano non campi di concentramento ma campi di sterminio, il loro fine era eliminare subito i prigionieri inadatti al lavoro, in seguito, progressivamente, gli altri. Le testimonianze emozionano più dei documenti, al limite possono avere un’influenza, temo però che questo accada solo a chi è già sensibile sull’argomento. Per molti anche le testimonianze più crude possono scivolare via come succede ogni giorno per i più efferati fatti di cronaca. Liliana Segre ha probabilmente detto parole chiave quando ha dichiarato che per lei le “pietre d’inciampo” sono più importanti del Giorno della Memoria perché «danno un nome alle vittime». Un nome è un nome: abitava lì, in quella casa, quelle erano le sue finestre, davanti a quel portone lo hanno preso. Non aveva colpe, era un essere umano come me. Requiescat.

 

La lettera
Gli occhi dei ragazzi ad Auschwitz
di Sonia Edwards

Mi chiamo Sonia, mia madre Andra Bucci venne deportata ad Auschwitz insieme a sua sorella, sua madre, la nonna, tre zii e un cuginetto. Lei è una dei soli 50 bambini che sono sopravvissuti al campo di sterminio.

Seguo sempre con molto interesse tutto quello che riguarda la Shoah, i racconti dei sopravvissuti e i viaggi della memoria. Mi fa molto piacere che il Senato abbia votato all’unanimità il disegno di legge che istituisce un fondo per sostenere i viaggi dei ragazzi delle scuole superiori nei luoghi dove vennero deportati gli ebrei. Ho ascoltato anche il discorso della Senatrice Segre, preoccupata dal fatto che i ragazzi non partecipino a queste esperienze con il giusto atteggiamento e voglio rassicurarla.

Io ho partecipato, insieme a mia madre, a mia sorella e a mio figlio, a questi viaggi della memoria organizzati dalla Regione Toscana e la prima cosa che ho capito è che i ragazzi vengono preparati per mesi, seguiti e guidati nella consapevolezza di quello che vedranno. C’erano centinaia di studenti e quando siamo partiti in treno da Firenze molti erano allegri, forse perché pensavano di andare in “gita”, ma ho visto con i miei occhi il loro cambiamento giorno dopo giorno. Quando siamo entrati ad Auschwitz c’era un silenzio assoluto, passati i cancelli infami l’aria si è fatta pesante. Non saprei come descriverlo, ma è qualcosa che si sente sulla pelle, che provano tutti coloro che hanno fatto un viaggio della memoria.

Si sono stretti tutti nei loro giacconi, si prova un freddo che ti spinge a domandarti come abbiano potuto sopravviverei deportati che indossavano soltanto un pigiama di cotone.

Ho guardato le facce dei ragazzi dopo che avevano sentito la testimonianza di mia madre e di mia zia Tatiana: erano serie e commossi.

Durante tutto il viaggio di rientro hanno fatto una fila nel vagone del treno per fare altre domande alla mamma, a un certo punto ho dovuto chiedere di smettere per permetterle di riposare un po’.

Quando siamo arrivati in stazione a Firenze erano cambiati, le risate erano diverse, avevano un’altra idea e un altro rispetto per i sopravvissuti.

Per nessuno di loro è stata una “gita”.

Conservo le lettere che ancora oggi scrivono a mia madre, sottolineando come il viaggio li abbia resi consapevoli di una sofferenza che non potevano neanche immaginare.

Anche a me, che pure ho una famiglia che ha perso la maggior parte dei suoi componenti ad Auschwitz, quelle ore passate nel capo di sterminio hanno cambiato la vita.
Questi viaggi della memoria sono preziosi, non sottovalutiamoli.

 

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