di Fabio Lambertucci
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Cap. VII – La presa del Campidoglio
Chiesa di Sant’Angelo in Pescheria, sabato 19 maggio 1347.
Mi trovavo con i venticinque seguaci di Cola davanti alla chiesa di Sant’Angelo in Pescheria, vicino al Portico d’Ottavia (1), aspettandolo mentre ascoltava trenta messe dedicate allo Spirito Santo. Il giorno dopo sarebbe stata infatti la domenica di Pentecoste.
Ad un tratto le campane delle chiese dei rioni circostanti cominciarono a suonare e vedemmo uscire Cola dalla chiesa, armato di tutto punto ma senza elmo e visiera.
Arrivarono circa cento uomini armati.
Si formò un corteo preceduto da quattro gonfaloni, uno in una cassetta per quanto era vecchio e consunto. Riuscì a vederne bene solo due: il primo era rosso con ricamata in oro la scritta Roma caput mundi seduta tra due leoni (2), in una mano la sfera del mondo e nell’altra la palma, il secondo raffigurava San Paolo con la spada in mano e la corona della Giustizia, lo portava il notaio Magnacuccia. Il terzo immaginai fosse quello di San Pietro con le chiavi. Giunse anche il vescovo Raimondo.
Il corteo si avviò verso il Campidoglio, passando accanto al teatro di Marcello (3) e alla torre dei Pierleoni. Via via si unì una gran folla perché era giorno di mercato. Arrivati davanti al Palazzo Senatorio non ci fu resistenza: vidi il balestriere che mi aveva fermato fuggire a gambe levate con le altre guardie. Nel mentre i sostenitori di Cola cacciavano a forza fuori dal palazzo gli scrivani e i senatori Robertino Orsini e Pietro Colonna.
Cola si affacciò ad una finestra assieme al vicario e iniziò il suo discorso: disse che per amore del papa e per la salvezza del popolo romano era pronto a sacrificare la sua vita e fece leggere, dal cognato Conte di Cecco Mancini, l’elenco dei quindici decreti che avrebbero riportato Roma al buono stato. Prevedevano la pena di morte per l’omicidio, processo entro quindici giorni, divieto di demolizione per rappresaglia di qualsiasi immobile urbano, il Comune avrebbe confiscato, creazione in ogni rione di una milizia forte di 120 fanti e 30 cavalieri, assistenza pubblica per orfani e vedove, una guardia costiera contro i pirati, il passaggio al Comune di tutti i castelli e fortezze dei baroni, fuori e dentro la città, e per loro l’obbligo di rifornire Roma di vettovaglie e non dare asilo ai malfattori, un deposito di grano per ogni rione, aiuti ai monasteri, indennizzi ai soldati caduti per il Comune, ripristino dei diritti del popolo romano sul “Distretto”.
I romani approvarono per alzata di mano e Cola, assieme al vicario, fu proclamato Rettore della città. A sera, quando il popolo cominciò a sfollare, rimasi con Cola nel Palazzo. “Hai visto, messer Enea, non è stata sparsa neanche una goccia di sangue! È bastato il mio solo ruggito!”.
Arrivò il suo amico Cola Vallati e gli annunciò: “Cola, la maggior parte dei baroni si è rifugiata nei castelli fuori Roma e non hanno nessuna intenzione di consegnarli!”.
La domenica di Pentecoste radunò il popolo in Campidoglio e si fece confermare Rettore della città e attribuire i pieni poteri: “Punire, uccidere, perdonare, concedere cariche, emanare leggi, fare trattati, stabilire i confini dello Stato e il mero e libero imperium quanto si poteva estendere il popolo di Roma”.
Era la sostanza di quello che aveva fatto leggere ai romani in Laterano.
Teatro di Marcello (stato attuale)
Note al cap. VII
1) – Ottavia minore (Nola 69 a.C.-Roma 11 d.C.) fu la sorella dell’imperatore Augusto. Nel Portico si svolgevano spesso sedute del Senato.
2) – Nel Medioevo, il leone era il simbolo di Roma.
3) – Il teatro di Marcello, in gran parte conservato, è l’unico teatro antico rimasto a Roma. Innalzato nella zona sud del Campo Marzio nota come Circo Flaminio, tra il fiume Tevere e il Campidoglio, fu voluto da Cesare e proseguito da Augusto.
Questo edificio fisserà lo schema del teatro classico romano, in cui la cavea poggia su strutture in muratura e non su un declivio naturale, come nel teatro greco. Servì inoltre da modello per la costruzione del Colosseo, e la sobrietà nella struttura della facciata ne fece un modello di riferimento per ogni teatro e anfiteatro romano futuro (fonte: www.romanoimpero.com ).
Teatro d Marcello (ricostruzione plastica)
Cap. VIII – I baroni giurano fedeltà
Mentre mi trovavo a passare per piazza San Marcello, nel rione Colonna, vidi arrivare trafelato a cavallo Stefano Colonna il Vecchio, con poca scorta. Doveva aver saputo delle novità. Disse ai suoi, lì radunati: “Queste cose non mi piacciono!”. Il giorno dopo seppi che Cola gli aveva intimato di andarsene da Roma e che il Colonna aveva urlato che se quel pazzo lo avesse mandato ancora in collera, lo avrebbe fatto gettare dalle finestre del Campidoglio. Sentii la campana chiamare il popolo che accorse con furore.
Stavo parlando di ciò con Cola quando giunse il caporione della Regola: “Cola, il Colonna è fuggito, lo hanno visto dalle parti di San Lorenzo, starà tornando al suo castello a Palestrina!”.
“Bene, allora cacciamo tutti i baroni da Roma. Preparate il decreto. Li voglio subito fuori dalla mia città!”.
Poi si affacciò e si fece confermare dal popolo e chiese che lui e il vicario fossero dal quel momento chiamati tribuni e liberatori.
I baroni tentarono di organizzare una congiura contro Cola ma si trovarono in disaccordo. Mentre gli Orsini del ramo di Marino gli erano ostili, quelli del ramo di Monte Giordano e di Castel Sant’Angelo si mostrarono invece favorevoli. Il tribuno allora li cita tutti a comparire per giurare fedeltà: il primo che venne fu Stefano Colonna il Giovane. Cola aveva astutamente fatto radunare molta gente in Campidoglio e quando il barone arrivò vidi che aveva molto timore. Cola, armato e vestito di rosso, lo fece giurare sopra l’ostia e il Vangelo di non combattere più contro il tribuno e i Romani, di fare incetta di grano, tenere le strade sicure, di non dare rifugio ai banditi, favorire gli orfani, le vedove e i poveri.
Incredibilmente poi giurarono Rinaldo e Giordano Orsini di Marino, Giovanni Colonna, figlio di Stefano il Giovane, Francesco Savelli e perfino il vecchio Stefano Colonna.
“Tribuno, sembra che tutto si stia mettendo al meglio!”.
“Messer Enea, prima bisogna far giustizia!”, mi rispose.
Musei Capitolini. Leone che azzanna un cavallo
Cap. IX – La cena della beffa
La più importante delle giustizie di Cola fu quella del barone Martino, quello che avevo incontrato sulla spiaggia. Mi dissero che era nipote del cardinale di Ceccano e del cardinale Giacomo Caietano ed era stato senatore.
Vano era stato ogni tentativo di fargli restituire il carico della galea napoletana; lo aveva venduto. Si era sposato da un mese con una bella e nobilissima signora, Mascia degli Alberteschi, ma si era ammalato di idropisia. Stava nella sua casa vicino alla Ripa Romea (1) e lì venne arrestato e condotto in Campidoglio, dove lo attendeva il popolo. Con le mani legate dietro, venne fatto inginocchiare accanto alla statua del leone (2), simbolo di Roma. Lì udì la sentenza di morte.
Confessato, fu subito impiccato. Sua moglie poté vedere dalle finestre di casa il corpo del marito penzolare per due giorni. “Visto messer Enea, non gli ha giovato né la nobiltà né la parentela con gli Orsini!” mi disse Cola. Altre sentenze contro nobili vennero finalmente eseguite e i baroni si inquietarano molto.
Per tranquillizarli il 14 settembre Cola li invitò a cena: Stefano Colonna il Vecchio con il nipote Giovanni, gli ex senatori Pietro di Agapito Colonna e Bertoldo Orsini, suo figlio Roberto, Giordano Orsini, Rainaldo Orsini di Marino, Orso di Vicovaro, Nicola Orsini di Castel Sant’Angelo e molti altri. A tavola si discusse se fosse meglio per un Rettore di città essere prodigo o avaro.
Ad un tratto, Stefano Colonna disse, toccando la guarnaccia di Cola: “Per te, tribuno, sarebbe più conveniente portare vestiti da bizzoco (frate francescano) che questi panni da gran signore!”.
Cola reagì furiosamente e li fece arrestare tutti.
Sentimmo Stefano, tutta la notte, battere i pugni contro la porta dell’aula consiliare, insultare e minacciare le guardie: nessuno gli aprì. Fatto giorno, Cola urlò: “Oggi gli tagliamo le teste! Preparate l’aula di giustizia con panni bianchi e rossi, in segnale di sangue!”. Ad ognuno mandò il confessore: gli unici a rifiutarsi di confessarsi e comunicarsi furono Stefano e Rinaldo degli Orsini che con pochi altri avevano già fatto colazione con fichi freschi. Il popolo fu radunato. Intanto dei cittadini invitavano Cola alla moderazione.
Il tribuno iniziò a parlare: “Commenterò il versetto del Pater noster: “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”…” declamò a sorpresa.
Poi li perdonò e chiese loro se volevano essere al servizio del popolo. Tutti inchinarono la testa.
Allora nominò alcuni patrizi, altri prefetti dell’Annona, duchi di Toscana o di Campagna (3). Donò ad ognuno un gonfalone con spighe d’oro. Li fece pranzare assieme a lui e poi cavalcarono, dietro di lui, per Roma e li fece infine andare liberi.
Si seppe dopo che i baroni, minacciando tra i denti, erano tornati nei loro castelli e i Colonna a Palestrina e gli Orsini a Marino avevano iniziato a fortificarli.
Spedii al Petrarca una lettera per informarlo di questa sorprendente decisione del tribuno e il grande poeta che al momento della presa del potere aveva esultato per Cola, dimenticando ogni legame d’affetto e riconoscenza per la famiglia Colonna (era amico del cardinale Giovanni) mi rispose che Cola si era comportato proprio da stupido, li aveva finalmente in pugno, li poteva annientare come lo aveva esortato a fare, invece…
Note al cap. IX
1) Ripa Romea o Ripa grande, era la banchina del fiume posta in corrispondenza di Trastevere dove erano le case degli Alberteschi; costituiva il principale porto di Roma nel Medioevo e traeva il suo nome dall’eccezionale afflusso dei pellegrini. L’11 settembre 1347 la vedova fu costretta da Cola di Rienzo a cedere alle monache di San Cosimato in Trastevere tutte le terre e i diritti nella città e nell’isola Portuense riconosciuti al marito.
2) – Di fronte a questa statua, ora nei Musei Capitolini, raffigurante un leone in atto di azzannare un cavallo (immagine di copertina), posta in cima alla scalinata che portava al Palazzo Senatorio, si eseguivano le condanne a morte.
3) – “La Campagna” è la zona a sud della Capitale.
“Quel che piace al mondo è breve sogno. Il racconto di Cola di Rienzo” capp. VII, VIII, IX – (3) continua
Per la prima parte (capp. I, II e III), leggi qui
Per la seconda parte (capp. IV, V e VI), leggi qui