di Silverio Lamonica
Gent. Redazione,
il 23 luglio (domani) ricorre il 59° anniversario dell’avvenimento in oggetto. L’intera Corte di Cassazione di Napoli venne a Ponza per interrogare l’ex cappellano di Santo Stefano Don Aniello. Nel mese di Marzo scorso qualcosa ha scritto in proposito Francesca Iacono, su questo sito – leggi qui – cui s’è aggiunta qualche precisazione, successivamente, da parte di Gino Usai. Io intendo aggiungere un articolo apparso sulla Stampa del 24 luglio 1953, in cui il cronista descrive, con dovizia di particolari, le fasi drammatiche dell’interrogatorio cui fu sottoposto questo anziano sacerdote. All’epoca avevo 12 anni, ma ricordo benissimo il “trambusto” che ci fu nell’isola all’arrivo della Corte con giornalisti al seguito e il giorno successivo Fiorentino, il giornalaio di allora, marito di Enza Rispoli, ordinò una scorta di varie testate di quotidiani, perché tanta era la sete di curiosità.
Silverio Lamonica
Il caso Corbisiero
(da “La Stampa” del 24.04.1953, pag. 5)
La Corte all’isola di Ponza per interrogare il cappellano del reclusorio
Fra i confusi ricordi del vecchio sacerdote rimane la frase: “l’ergastolano è innocente”
Enrico Manzi, il detenuto che sapeva dell’innocenza di Corbisiero, volle che la sua confessione fosse tenuta segreta fino alla morte.
(dal nostro inviato speciale)
Ponza, 23 luglio
Stamane all’alba, insieme ad avvocati e giornalisti, la Corte che giudica il caso dell’ergastolano Carlo Corbisiero, si è imbarcata sul rimorchiatore “Tenace” per interrogare a Ponza don Aniello Conte, il vecchio sacerdote, già cappellano dell’ergastolo di Santo Stefano.
Il percorso fino a Ponza, distante 60 miglia da Napoli, ha richiesto sei ore e, poco dopo, un pulman deponeva i suoi insoliti passeggeri innanzi all’abitazione del sacerdote: una casetta a un solo piano, pitturata a calce, con a fianco un po’ d’orto.
Il reverendo sapeva dell’arrivo dei giudici e s’era anche preparato, come appariva dal viso rasato e dalla sottana nuova, indossata per l’occasione, ma tutta quella gente, giunta ad affollargli la cameretta unica, in cui egli trascorre le sue giornate, lo ha messo in grande soggezione.
Il sacerdote ha ripetuto senza elementi veramente nuovi, quanto già disse: – Ricordo che Manzi si ammalò gravemente. Allora la Direzione dell’ergastolo decise di inviarlo a Napoli, come fa sempre quando lo richiedono le condizioni di salute dei condannati. Ma prima di partire egli mi chiamò e disse: “Padre, io so che fra poco devo morire e desidero confessarmi. Non voglio portare questo scrupolo innanzi a Dio , e una volta che saprete la mia fine, vi fo obbligo di dirlo. Padre, Carlo Corbisiero è innocente”.
Poi prosegue finché nasce un acceso diverbio fra le parti. Il sacerdote, un po’ per l’età e la cagionevole salute, un po’ per il caldo reso più soffocante dalla folla che gremisce il locale, appare stanco, emozionato, soprattutto per il continuo lampeggiare dei flash. Parla piano, s’interrompe, impallidisce. I suoi ricordi appaiono sbiaditi, spesso tronchi, sconnessi e si vede la sua mortificazione nel non essere più pronto innanzi a tutti quei signori. A un certo punto dice che Enrico Manzi lo autorizzò a informare il Corbisiero della sua confessione. Il Manzi, evidentemente, voleva confortarlo facendogli sapere che un giorno egli avrebbe potuto riavere la libertà, ma al tempo stesso, sotto la forza dell’istinto, non voleva che il sacerdote rivelasse subito la verità, temendo sempre la riapertura del processo e una possibile condanna a morte.
Questo dettaglio fa levare il rappresentante della Parte Civile, Avv. Cariota Ferrara e il P.M. Del Giudice che, vedendo in esso uno spiraglio sospetto, tempestano di domande il sacerdote finché quello, spazientito innanzi a tutto ciò che gli si chiede, dice fermo: “Una cosa ricordo: che nella confessione Enrico Manzi proclamò l’innocenza di Corbisiero”.
Ma il putiferio nella stanza aumenta, perché al fuoco dell’Accusa e della Parte Civile replicano, vigorosi, gli avvocati Augenti e Siniscalchi, facendo rilevare che non si può pretendere di far materia giudiziaria delle ombre che velano la memoria del sacerdote, così vecchio e malfermo, su fatti accertati tanti anni prima.
E allora, il Presidente Siravo fa un duplice improvviso esperimento: “Ricordate – gli chiede – se dopo la vostra rivelazione foste interrogato dai giudici?” E don Aniello, sempre più smarrito: “Non so, non mi ricordo, è possibile …” “A questo punto – detta il Presidente – si dà atto che il teste depone con manifesta confusione di ricordi, manifestando altresì una qualche difficoltà nella favella”. E poi: “Vedete, reverendo, ora io vi leggo le vostre deposizioni di quindici anni fa”. E le legge. Don Aniello: “Adesso mi rammento meglio. Certamente, se le ho firmate, quella è la verità”. “Reverendo – chiede Siniscalchi – per il vostro lungo apostolato fra i carcerati, avete avuto mai qualche riconoscimento morale?” “No, non mi pare” dice don Aniello. E’ questa la prova decisiva del turbamento in cui depone il vecchio cappellano: infatti nella sua camera sono ben tre quadri con i diplomi di benemerenza concessi al cappellano dal Ministero di Grazia e Giustizia “per l’opera di redenzione sociale”. Perciò tutti (compreso il P.M. e la Parte Civile) si scambiano un cenno d’intesa.
L’ultimo episodio che vede il sacerdote insorgere contro tutti, la Corte, i giornalisti, gli avvocati, nasce da una domanda rivoltagli dal Consigliere Guadagno, che evidentemente vuole controllare la sincerità della confessione del Manzi: “Sa lei, se dopo la confessione il Manzi ricevette anche la comunione?” Ora don Aniello ha capito e afferra subito la violazione in cui lo si vuole far cadere. Infatti, se egli dicesse che Enrico Manzi ricevette la comunione, rivelerebbe che lui lo assolse, cioè porterebbe in pubblico un segreto del Sacramento. Perciò si leva e dice severamente: “Questo nemmeno voi giudici potete chiedermelo. Non posso dirlo. Non ne ho l’obbligo”.
La testimonianza è finita. La Corte, gli avvocati salutano. Nella camera adesso si respira. Solo in un angolo, vicino l’altare (don Aniello, per concessione del Vescovo, dice la Messa in casa) è rimasto un giovane. “Tu chi sei?” chiede il sacerdote. E l’altro confuso: “Il figlio di Corbisiero”. Il cappellano lo guarda, stupito, come se lo avesse già riconosciuto tanto tempo fa (quando l’ergastolano fu condannato aveva venti anni) poi scoppia a piangere, “Figlio – dice – figlio mio”. E lo abbraccia stretto singhiozzando. I giudici sono già lontani. Fuori, nel pomeriggio, s’ode il frinire delle cicale; stridule, acute, come impazzite sotto il gran sole d’estate.
c. g.
Recuperato e riproposto da Silverio Lamonica
Franco De Luca
22 Luglio 2012 at 11:15
Caro Silverio, che pagina accattivante hai presentato!
Piena di pathos la cronaca, il fatto cui si riferiva agghiacciante, meritevole chi lo ha portato alla conoscenza pubblica. E cioé tu, al quale faccio i complimenti.