proposto dalla Redazione
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Come approfondimento ideale dell’articolo (sempre a cura della Redazione) pubblicato sul sito il 31 agosto scorso: È morto Mikhail Gorbaciov, il padre della “perestroika”, presentiamo una documentata analisi della sua opera compilata da Adriano Roccucci, professore ordinario di Storia Contemporanea all’Università Roma Tre (articolo uscito su la Repubblica del 29 settembre 2022).
Una matrioska con la caricatura di Gorbaciov
Quel che resta di Gorbaciov, eroe tragico
di Adriano Roccucci
Idealista e visionario, ha pagato in prima persona le conseguenze del suo stesso processo di riforma. Riflessioni sull’ultimo leader sovietico a un mese dalla morte
Il giudizio storico sulla figura di Mikhail Sergeević Gorbaciov e sulla perestrojka è controverso. È oggetto di confronto tra studiosi, ma anche di differenti valutazioni nel dibattito pubblico, con sensibili differenze di accento tra le discussioni in ambito russo, nel contesto di altri paesi ex sovietici o che hanno fatto parte del blocco comunista, nel quadro dell’opinione pubblica occidentale. Ci troviamo di fronte a una personalità complessa e a una vicenda storico-politica multiforme. Alcuni hanno sostenuto che la sua azione politica alla guida dell’Unione Sovietica si sia risolta in un fiasco: se il suo obiettivo era di riformare il sistema e di condurre il Paese verso un futuro migliore, il risultato è stato il collasso del sistema e la frammentazione dell’Urss.
Gorbaciov si è definito “un prodotto della nomenklatura sovietica e allo stesso tempo il suo anti-prodotto, il suo “becchino””. Figlio del mondo sovietico, era un credente sincero nel marxismo-leninismo e un convinto sostenitore del socialismo. Apparteneva alla generazione che aveva partecipato delle attese del disgelo di Krusciov e aveva fatto suoi gli ideali e gli intenti di quella stagione di riforma del sistema non priva di ambiguità, basata, dopo lo stalinismo, sull’idea di tornare a Lenin e di riproporre lo spirito del 1917. Il mito di Lenin, di un Lenin idealizzato, e del ritorno alle origini del socialismo alimentò la fede nella potenza delle idee rivoluzionarie e animò la ricerca di cui Gorbaciov si fece interprete, quella di rilanciare il comunismo cercando di realizzare un socialismo dal volto umano. Gorbaciov era animato da un universalismo idealistico che poggiava sulla visione di un comunismo riformatore, che avrebbe riportato il sistema sulla via di un autentico socialismo.
Il paradosso della vicenda della perestrojka è consistito nel fatto che la credenza in un socialismo dal volto umano ha reso possibile la pacifica autodistruzione del sistema. L’idealismo e il romanticismo dello slancio riformatore, che erano alimentati dalla tensione a trasformare la società, radicata nella visione comunista della storia, innescarono il processo che condusse al collasso del sistema. Fece difetto una visione della strategia politica da portare avanti per realizzare la perestrojka. Lo smantellamento della centralità del partito comunista, che fu il perno del processo di democratizzazione che a partire dal 1988 il segretario generale avviò con il suo programma di riforme, fu allo stesso tempo il punto di maggiore criticità, perché indebolì l’architrave dell’intero edificio sovietico segnandone il destino. D’altronde il partito era l’unico soggetto che avrebbe avuto interesse a realizzare un progetto di comunismo riformatore.
Tuttavia l’impresa di riformare il sistema era verosimilmente una sfida impossibile da vincere. Più realistica era probabilmente la via di qualche aggiustamento finalizzato al mantenimento del sistema stesso, che nella sua irriformabilità non avrebbe comunque avuto presumibilmente grande avvenire. Ma era una prospettiva che non rispondeva né al senso di crisi sistemica che assillava il gruppo dirigente della perestrojka, né alle caratteristiche della personalità di Gorbaciov, animata da una miscela di sincero idealismo e di volontarismo di tradizione bolscevica. In alcune conversazioni, che ebbi l’occasione di avere con Gorbaciov nel 2001, egli non mi nascose il dramma storico che dovette affrontare: “Noi ci rendevamo conto che il sistema non andava, che nel partito c’erano tante storture, alcune anche orribili. Eravamo figli del XX congresso, degli anni di Krusciov: eravamo della generazione degli anni Sessanta che aveva sognato un cambiamento della società sovietica e che poi si era scontrata con la stagnazione di Brežnev. Dentro di noi abbiamo vissuto la terribile ricerca di una strada d’uscita dalla situazione in cui si trovava l’Unione Sovietica. La perestrojka intendeva rispondere a questa ricerca. Solo dopo ho capito che il sistema non si poteva riformare, ma doveva essere cambiato: ma come capirlo prima?”.
C’è un altro dato della sua cultura politica che occorre mettere in rilievo. L’opzione per il dialogo e la persuasione come strumenti della politica ha caratterizzato la sua azione, nei successi e nei fallimenti. È indiscutibile che il suo contributo sia stato decisivo per mettere fine alla guerra fredda, al conflitto bipolare fondato sull’equilibrio del terrore degli arsenali nucleari. Egli riteneva che la perestrojka dovesse condurre a un nuovo ordine internazionale, sulla base della interdipendenza e del rifiuto del ricorso alla violenza.
La fine dei regimi comunisti in Europa centro-orientale nel 1989 è stata sostanzialmente resa possibile dalla politica di Gorbaciov e dalla sua decisione di non intervenire militarmente né di interferire nei processi politici di quei paesi. Un dilemma analogo si ripresentò nelle battute finali dell’esistenza dell’Unione Sovietica. Nel corso della perestrojka non mancarono episodi di repressione violenta da parte delle truppe sovietiche. Tuttavia il Cremlino non scelse mai di percorrere la strada della violenza sistematica per la risoluzione delle tensioni che si trovò ad affrontare. A orientare le decisioni di Gorbaciov fu la convinzione che non si dovesse ricorrere all’uso della forza; convinzione fondata sul rifiuto di pratiche di governo che risalivano alla cultura politica staliniana, ma più generalmente bolscevica.
Un fine intellettuale russo, Dmitrij Furman, ha scritto un giudizio penetrante di Gorbaciov, che merita di essere riportato: “Gorbaciov è stato l’unico politico nella storia russa che, avendo nelle proprie mani il pieno potere, consapevolmente, in nome di valori ideali e morali è andato incontro a una riduzione di quel potere e al rischio di perderlo. Egli aveva altri criteri di successo. Secondo le regole della politica avrebbe dovuto fermare, prima che fosse troppo tardi, l’anarchia scatenatasi. E non ci sarebbe stata la sconfitta. Ma secondo le sue regole non poteva farlo. Secondo le sue regole sarebbe stata una sconfitta. Secondo queste regole la sua sconfitta è stata una vittoria”.
È stato un protagonista della storia del tardo Novecento Gorbaciov, la cui vicenda è stata segnata da una dinamica paradossale tra l’idealismo umanistico di un neo-leninista e l’esito dei processi innescati dalle sue scelte politiche. William Taubman conclude la sua biografia dell’ultimo leader sovietico, definendolo un “eroe tragico”. È stato, per continuare a usare le parole del biografo, “un visionario che ha cambiato il suo Paese e il mondo”.
[Di Adriano Roccucci, da la Repubblica del 29 settembre 2022]