Botanica

Il dolore per la perdita degli animali estinti

segnalato da Sandro Russo

 

D’abitudine metto da parte, dai giornali che leggo (cartacei o on line), gli articoli che trovo particolarmente interessanti. Li archivio e di solito non ci penso più. Ma quando mi tornano in mente – oppure continuo a pensarci-  allora capisco che sono importanti ed è il caso di parteciparli ai miei amici e ai lettori di Ponzaracconta.
S. R.

 

ANIME ANIMALI – 1
Il canto del dodo e degli estinti
di Serenella Iovino – da la Repubblica di venerdì 19 agosto 22

Perché le specie scomparse sono un lutto anche per l’immaginazione Una nuova serie sui nostri vicini non umani e l’omaggio di Robinson

L’arca di Noè. Miniatura di scuola francese del XV secolo

Ci son due coccodrilli ed un orangotango. Parte così una delle canzoncine più infestanti dell’ecumene. Noè sta preparando l’arca, ma qualcuno manca: i liocorni. Lui aspetta un po’, ma poi li lascia a terra e se ne va. Da allora, niente più liocorni in giro. Forse non ci avevamo pensato, ma quella canzoncina è una storia di estinzioni. O meglio: lo è il diluvio, mito o archetipo presente nella memoria collettiva di culture diverse, dalla Mesopotamia all’Australia.
L’estinzione impressa nel racconto risalirebbe alla fine dell’ultima glaciazione, diecimila anni fa. Ma di estinzioni il nostro pianeta ne ha conosciute tante. L’ultima importante si verificò 66 milioni di anni fa, quando il 75 per cento delle forme di vita, dinosauri compresi, fu spazzata via da un asteroide.

Oggi però è diverso, perché l’estinzione è antropogenica: non un fatto fisico ma storico. Le statistiche dicono che in dieci anni il tasso di estinzione è stato mille volte superiore a quello naturale e un milione di specie, tra cui orsi polari, koala, api, pipistrelli, scoiattoli rossi, perfino l’allodola, sono in pericolo.

Le statistiche però nascondono qualcosa: la corporeità dell’estinzione, le storie, i volti. E anche il lutto: un lutto profondo e stellare, il «lutto delle costellazioni» per tutte «quelle creature prive di peccato che chiamiamo animali», direbbe Anna Maria Ortese. E pare così ovvio che le stelle, cui diamo da millenni forme e nomi di animali, piangano i nostri compagni di viaggio: e qui il pensiero va all’epilogo de L’assemblea degli animali di Filelfo, dove animali e stelle tornano a essere una cosa sola, e si tirano dietro, per salvarci, anche noi umani. Sì, perché anche noi e gli altri animali, ce lo insegna Darwin, siamo una cosa sola. Il nostro passato è costellato di biforcazioni da antenati comuni, e ogni perdita si riverbera inevitabilmente sul nostro futuro.

Dunque non è esagerato parlare di lutto: anzi, il sentimento di perdita che si associa alle estinzioni e alla fine di un mondo è così diffuso da essere riconosciuto dalla psicologia.
Un filosofo australiano, Glenn Albrecht, lo chiama “solastalgia”, combinazione del latino solacium (conforto) e del greco –algia (dolore). Se la nostalgia è il dolore della lontananza (nostos, viaggio), la “solastalgia” è la pena di essere rimasti in una casa desolata e irriconoscibile.
Difficile provare solastalgia per numeri e statistiche. Per quella servono volti e nomi. Servono storie e corpi: serve un racconto carnale.
E allora proviamo a incarnarla, l’estinzione. Lo fa David Quammen in The Song of the Dodo, Il canto del dodo.

Dodo, Raphus cucullatus. Ricostruzione del Dodo presso il Museo nazionale di storia naturale di Francia

Quella del Raphus cucullatus è una vecchia storia.
Autoctono delle Isole Mauritius, quest’uccellone columbiforme si estinse dopo l’arrivo di olandesi e portoghesi. Non aveva carni pregiate, ma era incapace di volare e nidificava a terra: preda troppo facile per cani, maiali e ratti al seguito dei colonizzatori. L’ultimo dodo Quammen lo immagina femmina: anziana, malandata, sola.

In un giorno di bufera del 1667, scrive, si riparò ai piedi di una scogliera. «Gonfiò le piume per riscaldarsi e girò gli occhi in uno sguardo di paziente infelicità. Aspettava. Leinon lo sapeva, nessuno lo sapeva, ma era l’unico dodo rimasto sulla terra. Quando la pioggia passò, i suoi occhi rimasero chiusi. Per sempre. Questa è l’estinzione».

Ma non sono solo una specie e i suoi individui che svaniscono, con l’estinzione. Svanisce anche il modo in cui, attraverso di loro, il mondo ha conosciuto se stesso. Lo spiega Vinciane Despret, studiosa belga, che ha scritto pagine bellissime sul piccione migratore. Appartenente alla famiglia delle tortore, l’Ectopistes migratorius era una specie endemica in Nord America. Fino alla fine dell’800 contava milioni di esemplari. Durante le migrazioni, maree di uccelli attraversavano le città, posandosi dappertutto. Erano così tanti che li si acchiappava con le mani.
La caccia, selvaggia, durò pochi decenni: nel 1878, solo in Michigan ne vennero uccisi oltre un milione. Gli ultimi due esemplari morirono nello Zoo di Cincinnati, dov’erano ospitati nella speranza che si riproducessero. Li avevano chiamati Martha e George, in omaggio alla prima first couple. George, il piccione, morì nel 1910; la sua Martha, il primo settembre 1914.

A finire con loro non è solo Dna, dice Despret. È la coscienza espansa degli stormi in cui innumerevoli individui si comportano come una nuvola di ali, è il sapore di infiniti frutti, l’intuito ancestrale delle rotte, il fresco delle notti, la trama degli alberi. Non solo: a spegnersi è l’organo di senso e di immaginazione che quella specie è diventata per il mondo. Una specie che scompare «è il pezzo di un universo di sensazioni che si dissolve».

E si perde un’altra cosa importante: gli intrecci evolutivi, le co-creazioni; perché le specie, senza saperlo o volerlo, si creano a vicenda, diventano insieme. Perciò le estinzioni non capitano mai da sole, ma si accompagnano, con un “effetto cascata” che si riverbera sugli ecosistemi. Oppure si scompagnano: sono le specie che i cambiamenti climatici mandano fuori sincrono, come il granchio a ferro di cavallo, il Limulus polyphemus, e un uccello che se ne nutre, il piovanello maggiore, Calidris canutus. Infine ci sono i corpi che non vedremo, i nomi che nessuno chiama. Sono gli insetti, anfibi, molluschi, e tutte le specie arcaiche e remote allo sguardo che non avremo fatto in tempo a conoscere, e che nessun Adamo, Linneo o zoologo di Cincinnati hanno mai nominato. Eppure i nomi sono importanti.

La scena da La grande bellezza. Di Paolo Sorrentino (2013)

Lo suggerisce anche Paolo Sorrentino in una delle scene più poetiche de La grande bellezza. È l’alba, siamo sulla terrazza di Jep Gambardella. La Santa, mistica e misteriosa, è a colloquio con uno stormo di fenicotteri. «Io conosco i nomi di battesimo di tutti questi uccelli», dice.
Senza nomi conoscere le cose è impossibile.
Se estinzione è lo spegnersi di qualcosa, forse i nostri racconti di corpi e di nomi aiutano a mantenere accesa l’immaginazione di quest’universo animale e stellato di cui siamo parte. Un universo che, da sempre, quando lo interroghiamo sul nostro futuro, ci parla sornione del nostro passato.

[Da la Repubblica del 19 agosto 2022]

Il canto del Dodo. Da la Repubblica del 19 agosto 2022.pdf

 

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