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Ho letto solo ieri del libro più recente di Ezio Mauro: Lo scrittore senza nome – Mosca 1966: processo alla letteratura
La presentazione di Wlodek Goldkorn su la Repubblica del 14 maggio: “Mosca contro gli intellettuali”, reca ‘in occhiello’ queste frasi:
– Con Repubblica l’ultimo libro di Ezio Mauro dedicato a Julij Daniel, scrittore dissidente che nell’Unione Sovietica di Breznev finisce sotto processo insieme all’amico Sinjavskij.
– Le vicende umane si alternano e sullo sfondo la Storia, una lezione imparata da Pasternak”.
Dall’articolo ho appreso che Ezio Mauro “è stato corrispondente a Mosca negli anni della perestrojka di Gorbaciov. Ed è innamorato della cultura russa, prima di tutto della letteratura, non quella trionfale di stampo sovietico ma della letteratura come scelta di vita di chi la pratica e quindi radicale”.
Di Mauro ho molto apprezzato questo articolo – su la Repubblica di oggi – che mi fa piacere condividere con i lettori di Ponzaracconta.
S. R.
Il cuore freddo della democrazia – Da la Repubblica di oggi, 16 maggio 2022
di Ezio Mauro
È la nostra stessa cultura politica che viene bombardata in Ucraina, sono le nostre regole del gioco divenute fino a ieri universali, è il nostro modo di vivere e convivere in un quadro di sovranità reciprocamente riconosciute e accettate, in un modello democratico di convivenza pacifica. Abbiamo qualcosa da difendere anche noi, sul bordo di questa guerra, rifiutando l’abuso come sostituto del diritto.
Prima ci sono le vittime, naturalmente, soprattutto i vecchi, le donne e i bambini intrappolati nei caseggiati sventrati dai missili. È questo – l’inumano – a farci dire che bisogna subito fermare il massacro, evitare altre carneficine. Ma appena solleviamo lo sguardo, dietro i cadaveri compare un paesaggio di distruzione civile, con i sopravvissuti costretti ad aggirarsi nel cratere di città fantasma, dov’è ormai stata annientata ogni forma di vita associata, demolito qualsiasi spazio politico, soffocata l’intera testimonianza civica. Palazzi sventrati, piazze cancellate, strade saltate per aria: rovine.
Eppure qui c’erano teatri, chiese, caffè, scuole, municipi, sedi di partito e sale per pubbliche assemblee dove si consumava il rito quotidiano della democrazia delle piccole cose, una liturgia di libertà minimalista ma costante in una rete di riconoscimenti reciproci, nel comune sentimento di cittadinanza. Adesso le città calpestate non ci sono più, e di questo nessuno parla.
L’Europa sembra finire dov’era incominciata, nell’invenzione greca della polis occidentale che collegava lo spazio privato a quello pubblico, l’oikos domestico all’agorà, la piazza del mercato e delle riunioni, il luogo dov’è nata la democrazia.
Quale prezzo pagheremo per la morte delle città? È il prezzo della democrazia, che oggi vede annientate le sue sedi individuali e collettive, come se l’invasore volesse estirparla dall’Ucraina, nelle sue forme e nella sostanza. Ed è un costo immediatamente sproporzionato tra i due Paesi, fuori da ogni equilibrio, su cui bisognerebbe riflettere proprio oggi che dopo tre mesi di conflitto siamo vicini al punto zero, dove la guerra non riesce a risolvere se stessa e rischia di diventare cronica: col risultato di smarrire le motivazioni reali con cui il 24 febbraio il Cremlino ha dato il via all’invasione, di ridurre quest’avventura a un puro confronto militare e di confondere nell’indistinto il profilo politico e morale dei due contendenti.
Chi pensa infatti che l’evidenza della colpa e il peso della responsabilità valgano solo per il momento iniziale dell’aggressione, perché poi la radicalità della guerra annulla ogni distinzione in un’unica logica di morte che sovrasta torti e ragioni, dovrebbe riflettere su questo sterminato panorama urbano di rovine che ha stravolto l’Ucraina: e soltanto l’Ucraina.
Con la dimensione civica annientata è stato eliminato l’esercizio popolare della cittadinanza, ogni espressione di statualità locale, la pratica concreta della rappresentanza, la libertà politica degli individui. Sono gli ingredienti di base della democrazia, che così spogliata e denudata viene cacciata sotto gli occhi del mondo dalle città, quel nucleo sovrano originario dove è stata generata la politica.
Dunque è la nostra stessa cultura politica che viene bombardata in Ucraina, sono le nostre regole del gioco divenute fino a ieri universali, è il nostro modo di vivere e convivere in un quadro di sovranità reciprocamente riconosciute e accettate, in un modello democratico di convivenza pacifica.
Perché nella pubblica opinione – e in particolare a sinistra, e nell’area più impegnata nel pacifismo – non nasce una ripulsa unanime della violenza indiscriminata e arbitraria contro i cittadini e le città aggredite, e dell’attacco al cuore del meccanismo democratico che ha governato la pace in questo lungo dopoguerra? Anzi, alla prova dei fatti bisogna introdurre una distinzione in più. Perché per l’Ucraina invasa quando non c’è condivisione c’è almeno compassione, mentre per la democrazia ferita nessun sentimento entra in gioco, il sostegno è tiepido, la solidarietà vacilla.
La lezione occidentale dopo quasi cento giorni di guerra è amara: la democrazia non mobilita, è condannata alla solitudine, costretta a dare senza ricevere, obbligata a curarsi da sola le ferite. C’è in Italia qualche avara manifestazione per l’Ucraina occupata, ci sono pochissime testimonianze d’impegno per la democrazia sfregiata.
Pesano sicuramente i riverberi ideologici fuori stagione del Novecento, l’anti-americanismo di destra e di sinistra che non vede il risorgente imperialismo di Mosca, la nostalgia del “campo” socialista che sopravvive ai fallimenti della storia, in un sovietismo immaginario con gli oligarchi al posto dei soviet. Ma pesa di più la disaffezione alla democrazia, la delusione per le sue promesse mancate, il peso della bardatura burocratica del suo sistema di regole, l’intermittenza del debole contatto tra il cittadino e la politica.
In una formula, scopriamo che la democrazia ha il cuore freddo, dopo aver surriscaldato il Novecento. Tanto che ha rinunciato a fare un racconto di sé. L’ideologia si racconta, la rivoluzione addirittura si canta: la democrazia si tace. Come se fosse una seconda natura spontanea dell’Occidente, e non una riconquista eroica dell’Europa; anzi, come se l’avessimo comunque e sempre a disposizione, una sorta di risorsa naturale a cui siamo talmente abituati da svalutarla nella menzogna, mettendola sullo stesso piano dell’autoritarismo aggressore e svillaneggiandola.
Vale a questo punto il paradosso di Sofri: come mai questi avversari occidentali della democrazia preferiscono vivere in questa parte di mondo piuttosto che nell’altra? Qui, dove la democrazia mostrando la sua fragilità si rivela una costruzione umana che ha bisogno di cura e manutenzione, perché non basta a se stessa: e tuttavia prova a rinnovare costantemente il mandato coi cittadini protagonisti, riformulando il suo patto.
Proprio qui, tuttavia, proprio in questa fatica della democrazia sta la sua grandezza, perché nella promessa che si ripropone dopo ogni errore e ogni infedeltà, ricominciando ogni volta, c’è la scintilla dell’universale, in quei valori nati in Occidente e testimoniati al mondo. È la sostanza di ciò che noi siamo, o almeno di ciò che vale la pena di essere.
Abbiamo dunque qualcosa da difendere anche noi, sul bordo di questa guerra, rifiutando l’abuso come sostituto del diritto. E sapendo che non l’ipocrisia e l’equidistanza, ma l’impegno per i valori della democrazia è l’unica strada per arrivare davvero alla pace.
Immagine di copertina: da La Repubblica del 14/o5/2022 – foto di Natalia Kolesnikova. AFP