di Sandro Vitiello
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Ieri sera in televisione in uno di quei quiz “dove si vincono milioni”, come avrebbe detto mio padre, a una concorrente è stato chiesto quale piatto potesse essere considerato una specialità dell’isola di Ponza, da scegliere in una rosa di quattro indicazioni.
Rosanna Conte che ci ha girato la notizia non ci ha fatto sapere se la ragazza ha risposto correttamente ma io, dopo aver ricevuto lo screen shot della news l’ho girato alla chat su whatsapp che ho con la grande famiglia dei “Sacco”.
Risposta quasi unanime: – Manco in tempo di guerra si era arrivati a mangiare le palette dei fichi d’India.
Sì, le palette della pianta che ci dà i fichidinie da tempo sono diventate una specialità. Le avevo assaggiate diversi anni fa da Aniello ‘a Bestia, nel ristorante “La Marina” che lui e la sua famiglia gestiscono con grande successo a Cala Feola, in riva al mare.
I loro successi come ristoratori non derivano certo dall’idea di trasformare in cibo le palette, loro sono bravi per mille ragioni: sanno cucinare, sono affabili e il posto è molto suggestivo.
Eppure quel piatto inventato sicuramente per stupire è diventato un messaggio così importante da essere arrivato in un quiz su una rete televisiva nazionale.
Aspettiamo il prossimo passo da Benedetta Parodi e poi vedremo alla prova gli chef di “quattro ristoranti e un funerale”?
Intanto mi ritornano alla mente le parole di mia nipote Leandra: “Nonna Mmaculata diceva che in tempo di guerra hanno mangiato di tutto… ma mai le foglie di paletta”.
Affermazione categorica. Perché?
Perché forse le palette erano cibo abituale per le capre ed abbassarsi a mangiarle significava, nell’immaginario di chi ha vissuto l’esperienza terribile della fame durante la guerra, degradarsi al livello di un animale.
La guerra si vince quando si riesce a distruggere la dignità di un popolo, quando la fame, il freddo, il terrore arrivano ad un livello tale da non avere più rispetto per se stessi. Quando l’unico obiettivo davanti a se è sopravvivere.
A modo loro, nella nostra piccola comunità, durante la guerra i ponzesi cercavano di conservare una certa dignità rifiutando l’idea di mangiare lo stesso cibo delle capre.
Oggi che non abbiamo più l’incombenza della fame, e speriamo sia così per tanto tempo ancora, possiamo permetterci lo sfizio di mangiare anche la parmigiana di palette ma vorrei augurarmi che non diventi “il piatto tipico” dell’isola di Ponza.
Antonio Corti Jr.
22 Marzo 2022 at 17:45
Mio nonno Antonio Corti, rimasto a Ponza durante la guerra mentre la moglie Rosa Migliaccio era andata a Suio per aiutare la figlia, mi raccontava che ricavavano una sorta di farina dalle palette essiccate e con quella facevano il pane. Circa il sapore era ancora disgustato quando, anni dopo, lo raccontava a me bambino.
Luisa Guarino
22 Marzo 2022 at 19:10
Per dovere di cronaca e per correttezza precisiamo che il quiz di cui si parla è uno dei più popolari di RaUno: ‘L’eredità’, in onda tutte le sere alle 18.45, ed è condotto da Flavio Insinna. La sua rubrica finale, ‘la ghigliottina’ è diventata per molti telespettatori un vero, imperdibile, momento cult.
Enzo Di Giovanni
22 Marzo 2022 at 20:33
I PAT – Prodotti Agroalimentari Tradizionali – sono un importante riconoscimento delle eccellenze gastronomiche italiane. Nel 2020 tra i 428 prodotti della regione Lazio, furono inserite ben tre specialità ponzesi:la trippa di mare, le uova di pesce e la parmigiana di palette di fico d’india.
Bene, verrebbe da dire!
Mica tanto…
Delle 3 eccellenze “tradizionali” solo una potrebbe esserlo davvero, anche se è acquisizione recente: le uova di pesce.
Il disciplinare dei PAT prevede infatti che possono fregiarsi del riconoscimento, ed entrare nel paniere nazionale, i prodotti agroalimentari tradizionali “le cui fasi di lavorazione, conservazione e stagionatura risultano consolidate nel tempo”. Più dettagliatamente, “devono risultare praticate sul territorio di riferimento in maniera omogenea secondo regole tradizionali per un periodo non inferiore ai 25 anni”.
A Ponza, come chiunque sa, la parmigiana di fico d’India è un piatto elaborato da qualche anno da un ristoratore creativo, come ci ricorda Sandro, probabilmente tratto da un tutorial di you tube, essendo l’utilizzo delle palette giovani in uso in certe ricette siciliane. Semplicemente.
Per rendere veritiera l’invenzione di questo piatto, e perciò giustificarne l’ingresso tra i PAT, si è arrivati a costruire una narrazione, ovviamente del tutto arbitraria, sulla storia del piatto stesso, come leggiamo sulle riviste accreditate:
“La parmigiana di palette di fico d’India è stata un supporto nutrizionale fondamentale per i ponzesi, specialmente in tempo di guerra, quando dalla terraferma non arrivavano rifornimenti e materie prime. Gli abitanti dell’isola si inventarono così una cucina di necessità che datava la sua nascita dai tempi antichi. Le palette di fichi d’India sono le pale giovani e morbide della pianta. Le massaie dell’isola usano togliere le spine che non si sono ancora indurite lavorando le palette a mani nude. Poi con l’aiuto di un pelapatate si asporta la scorza verde e le palette vengono quindi messe a bollire per una ventina di minuti. A questo punto possono essere cucinate con il pomodoro e il formaggio grattugiato. Ovviamente trattandosi di un piatto di cucina povera le palette sostituiscono le melanzane e il formaggio grattugiato sostituisce la mozzarella che certo era di difficile reperimento.”
Narrazione che non solo è falsa, ma addirittura offensiva se seguiamo o la linea storica, questa sì reale, che ci riporta l’articolo di Sandro Vitiello.
Ora, noi sappiamo che le tradizioni si possono “inventare”. Io stesso ne scrissi tempo fa citando lo storico Eric Hobsbawn: https://www.ponzaracconta.it/2014/02/20/ponza-lavventura-di-antonioni-e-linvenzione-della-tradizione-2/
Ma l’invenzione presuppone un arricchimento di una comunità, una contaminazione sinergica tra culture, non certo il travisamento dei fatti.
Insomma, “inventare una tradizione” è una cosa, “fingere di inventarsela” con interventi esterni è un po’ troppo, ai danni di una comunità fragile ed in crisi di identità: e pensare che ne avremmo di prodotti da inserire nei PAT, basti pensare alle mostarde di fico d’India, o alle alici arrianate, o al coniglio alla ponzese, tanto per citarne alcuni.
Vecchia storia: in tutti i settori diamo spesso un’idea di Ponza edulcorata, non reale, a fronte delle tante ricchezze di cui disporremmo, se solo fossimo capaci di valorizzarle.
E questo è davvero sconcertante.
silverio lamonica1
22 Marzo 2022 at 21:11
Mi trovo a Roma e, purtroppo, non ho sottomano la guida turistica “Ponza Perla di Roma” di Don Luigi Maria Dies, pubblicata nel 1950, quindi appena 5 anni dopo la fine della II guerra mondiale. Ebbene, Dies scriveva che durante la guerra Ponza rimase completamente isolata dalla terraferma per alcuni mesi, dopo il tragico affondamento del Santa Lucia. I viveri scarseggiarono, noi ponzesi (nel 1943 avevo due anni) fummo ridotti alla fame e “le donne di ponza ammannivano perfino le palette di fichidindia, pur di sfamare un po’ la famiglia” (scrive più o meno così Don Luigi M. Dies). Sinceramente dai ricordi di famiglia non mi risulta che allora mia madre serviva a tavola palette di fichidindia, mi è stato detto che al posto del latte, a me e mio fratello Francesco veniva servito acqua di cipolle. Ma ciò non toglie che diverse famiglie adattavano a cibo le palette. Del resto la testimonianza di un sacerdote la ritengo fondamentale, soprattutto in un’epoca in cui il 99% della popolazione si affidava totalmente al parroco e ai suoi precetti.
Anche io, due estati fa, ho assaggiato il piatto a base di palette (si trattava di germogli) cotti a mo’ di parmigiana, presso il noto ristorante d’ A Bestia di Forna Grande. I miei complimenti al cuoco.