Francesco De Luca
“Dove porta questa strada?”
“A casadiavule”.
Rimango sorpreso. Cosa ci sarà mai dietro questa espressione ‘casa del diavolo’. Beh, anche se la frase è malevola e allude ad una presenza cattiva, la strada se non altro ha una fine. Questo mi suona positivo. Il riferimento al diavolo chiarisce che non bisogna aspettarsi qualcosa di piacevole. Mi intriga. Il diavolo è una figura popolare dai tanti volti. Tutti negativi, va bene, ma talvolta la diceria del diavolo copriva moti di opposizioni alle direttive dello Stato o della Chiesa, cosicché il popolo si creava una scappatoia alle imposizioni. Questo, per dire che non sempre il diavolo ha le corna.
Proseguo dunque la strada. Non agevole. Dopo un po’ lascia l’acciottolato e diviene sentiero sterrato, e sale. Alle spalle ho la conca del porto che diviene più piccola mentre l’orizzonte si apre e comprende Zannone e, oltre ancora, la costa laziale.
Più mi inoltro e più vengo sopraffatto dalla natura. Non è debordante, no, perché i declivi sono spezzati dai terrazzamenti. In alcuni la coltura della vite mette ordine, in altri il selvatico s’è imposto e la piccola macchia di uastaccette (ginestra ponziana) inspessisce il verde. Un tordo saetta, il pettirosso chiccola nelle pause dei colpi di una zappa che colpisce con forza la terra, per prepararla ai semi. C’è qualcuno che fatica… meglio non indagare perché chi suda di lavoro prova dispetto per chi bighellona, come me.
Dove sto andando? Non lo so. Le case ormai stanno dietro e non credo che ne troverò qualcuna. Per cui non mi resta che incontrare il ‘diavolo’.
Il sentiero è andato a confluire dove scorre l’acqua quando piove. E’ sconnesso da pozzanghere, da ciottoli e da spuntoni di roccia levigati. Sempre in salita.
Alzo gli occhi e c’è una ‘parracina ‘ ben messa. Anzi, quel muro fa parte di un reticolo che conchiude un appezzamento di terreno. Infatti sul lato destro c’è una porta-cancello di legno e sopra una tavola con la scritta: Qui è l’ Inferno. Con la maiuscola. Segno che chi l’ha scritta qualcosa aveva in mente e qualcosa voleva dire.
Nell’ inferno si incontra di sicuro il diavolo.
Nei movimenti e nei gesti devo aver mostrato interesse a sapere qualcosa di più. Non grido, non chiamo, non emetto voce, eppure da sopra qualcuno dice: trase p’u canciello.
Non vedo nessuno ma devo essere visto. Scanso il cancello ed entro. Dalle catene più in alto scende un contadino. Lo noto perché indossa quelle camicie americane a quadroni colorati. La sua è grigia, nera e rossa. Si chiama Amedeo, mi sorride. “Ma come, inferno?… perché chiami così questo posto?”
Mi saluta come se fossimo stati amici da sempre. Mi accompagna dove sono disposti alcune sediole e un tavolino.
Alle spalle si alza Monte Guardia. Fino ad un limite è terrazzato, poi la parete si inerpica scoscesa. Si apre davanti l’immensità del mare. L’isola vi si intromette per un pochino. Più oltre le Formiche, poi la nebbiolina annega tutto l’orizzonte nel mare.
“L’ inferno… ma perché?”- incalzo.
Amedeo mi dice d’ aver trascorso in America venticinque anni. Poi è tornato, stanco e con una buona pensione. La moglie gli è morta, e non ha figli. Vivrebbe tranquillo se non fosse per il terreno che possiede. Coltivato a vite. Glielo hanno lasciato i suoi e non ha cuore di vederlo infestato dagli sterpi. Così ogni giorno viene quassù. Ha incanalato l’acqua piovana in un fosso (pescenale) dal quale trae l’acqua per irrigare i pomodori in estate, e i piselli, le zucchine, le patate, i cavoli. Il vino. “Vieni”, e mi porta in una grotta-cantina. C’è il palmento, le botti, i barili, i fiaschi. Ne prende uno, due bicchieri e versa. Beviamo alla sua salute. “Alla nostra” – dico io. “No, alla mia – ribadisce lui – qui ci sto perdendo la vita. Questo non è un paradiso, è un Inferno”. Senza diavoli, con corna e no.
Inseguivo una circostanza che potesse manifestarsi inconsueta e ho trovato una quotidianità contrastata.
Come si fa ad attribuire valore alla vita quotidiana? E’ impresa che non si tenta nemmeno. Quando scorre, la vita viene aggredita, viene divorata. Non gustata. La si gusta se si ha la fortuna di allontanarsi dalle pressioni e, con gli anni addosso, vederne il decorso, al modo che lo scorrere dell’acqua.