Questo articolo (benché) di critica letteraria ha diversi buoni motivi per essere letto:
– deriva dall’aver toccato il tema delle Quattro Giornate di Napoli (leggi qui); mi sono ricordato che anche D’Arrigo ne aveva scritto, alla sua maniera, in Horcynus Orca. Spesso leggendo e vedendo film le associazioni si accavallano;
– riprendendo in mano il mio libro (edizione Mondadori, 1975) ci ho trovato dentro, ripiegato, un paginone del Corriere della Sera del novembre 2003 con una bella recensione di George Steiner, critico letterario d’eccellenza, scomparso solo due anni fa.
– È rimarchevole l’apprezzamento dell’opera, alquanto misconosciuta in Italia, da parte di un critico straniero che ha avuto i suoi problemi con la particolare prosa dispiegata da D’Arrigo per l’opera (un prezioso italiano con inserimenti di dialetto siciliano). Nella recensione Steiner associa l’Horcynus Orca al destino di un altro capolavoro poco noto: Il giorno del giudizio (pubblicato postumo nel 1977), di Salvatore Satta.
– Consideriamo questo saggio una preparazione alle pagine dell’Horcynus promesse sui fatti di Napoli.
Buona lettura.
S. R.
Il capolavoro di Stefano D’Arrigo nella lettura di un celebre critico
Il mistero dell’Orca
di George Steiner
– Torna, con note inedite, il romanzo dello scrittore siciliano: un intreccio di miti arcaici e realtà storiche a lungo incompreso
– Moby Dick d’Europa
– L’inquietante paradosso di un essere portatore di morte e di forza vitale
– Una narrazione densa complicata dall’uso del dialetto siciliano
Nulla è più frustrante, per un lettore appassionato, di trovare un libro che per lui è travolgente, un capolavoro, e scoprire che quasi nessuno lo conosce e che non è facile persuadere gli altri a condividere il piacere che gli dà. Come può essere che un libro che lo colpisce profondamente, che trasforma il suo panorama interiore, rimanga oscuro e, in larga misura, non letto? O che i colleghi, gli amici a cui comunica il suo entusiasmo rimangano scettici o addirittura rispondano in modo negativo?
Il titolo mi affascinò molto. Non ricordo dove esattamente lo sentii la prima volta o se l’incontrai per caso in qualche opera di consultazione. Se ben ricordo, fu a Torino, dove davo una conferenza molti anni fa, che le enigmatiche, ossessive parole, Horcynus Orca, mi colpirono per la prima volta. In realtà non avevano molto senso per me. Quando indagai in diverse librerie, fui informato, da librai che a loro volta avevano sentito nominare quel titolo solo vagamente o per nulla, che il romanzo di Stefano D’Arrigo (ora riproposto in una nuova edizione da Rizzoli, ndr) era esaurito e che c’erano, nella miglior delle ipotesi, voci sporadiche di una futura riedizione. Perplesso, ricorsi all’eccellente Cambridge University Library. Lì trovai una copia della prima edizione (1975) che nessun lettore in precedenza aveva mai preso in prestito! Già a una prima occhiata capii che il mio mediocre italiano sarebbe stato insufficiente a venire incontro alle esigenze di D’Arrigo. Non solo il dialetto siciliano è spesso problematico anche per un italiano, non solo l’idioma usato dal narratore e dai pescatori che raccontano, che rappresentano la narrazione epica, è tecnico e densamente lirico, ma l’ambiziosa solitudine e l’originalità di D’Arrigo contribuiscono a rendere il tessuto narrativo complesso e polifonico come quello di Gadda o di Joyce. I dizionari sono una delle mie buone abitudini e mi furono d’aiuto. Ma spesso mi trovai, matita in mano, a leggere e rileggere la stessa pagina nello sforzo di capire; consapevole che molto di quel che c’era scritto mi sarebbe rimasto oscuro. Non importa. Il moto oceanico della storia, il fantastico potere dell’intreccio di motivi arcaici mitologici e della feroce realtà della Seconda guerra mondiale, la capacità di D’Arrigo di dare una vita violenta e lirica agli elementi del tempo e del paesaggio, del mare e della terra, mi fecero superare ogni barriera linguistica e grammaticale. Come sanno fare solo rari maestri, D’Arrigo ben rappresenta il paradosso per cui l’Orca, il rapace mostro delle profondità marine, è allo stesso tempo portatore di morte e di forza vitale. L’oceano, l’aria, le rocce risonanti di echi, gli animali che le abitano, sono elettrizzati dalla minaccia rappresentata dall’Orca ma anche dall’ammirazione per la sua indistruttibilità. A loro volta gli abitanti del villaggio, gli amanti, i funzionari fascisti, gli occupatori tedeschi che costituiscono i numerosissimi personaggi superbamente caratterizzati sono emotivamente colpiti dall’oscuro Minotauro del mare, che lo incontrino direttamente o no.
Pesando attentamente le parole, direi che alcuni episodi — la fuga dei delfini dall’Orca ferita, il massacro di un giovane soldato tedesco isolato da parte di donne e bambini assetati di vendetta (queste due scene sono, naturalmente, in profonda contrapposizione) — rimarranno tra i grandi momenti di tutta la letteratura. Ci sono stati tra gli scrittori italiani, a cominciare da Elio Vittorini, dei ferventi sostenitori di questo libro. Ma in Italia esso rimane praticamente ignorato e all’estero sconosciuto.
Io ho predicato in favore del genio de I fatti della fera (un titolo precedente), ma per lo più invano. Eppure esso è senza dubbio la risposta europea a Moby Dick. Fu durante una sera di vento gelido a Siena, dove ero guest professor all’università. Un collega mi chiese: «Sai qual è la frase più terribile della letteratura italiana dopo Dante?». Tentai varie risposte, citando tra l’altro Machiavelli e Primo Levi. «No – disse il mio interlocutore – La frase più feroce è quella pronunciata da Don Sebastiano Sanna Carboni alla povera moglie, dispoticamente sfruttata, nel primo capitolo de Il giorno del giudizio di Salvatore Satta: Tu stai al mondo soltanto perché c’è posto».
Immediatamente lessi il libro e lo trovai un capolavoro. Lo stile di Satta, derivato in parte dalla consuetudine con il linguaggio legale, in parte da Tacito, uguaglia quello di Swift o di Stendhal. Il ritratto di Nuoro, di una comunità tagliata fuori da un mondo esterno che teme e disprezza allo stesso tempo, di un ambiente sardo aspro e implacabile come le rocce che bruciano al sole di mezzogiorno, costituisce una delle più alte opere di immaginazione politica della letteratura moderna. Ci sono magnifici momenti scenografici, come la notte in cui Nuoro ha la luce elettrica per la prima volta o la vendemmia.
La rappresentazione mordace, e tuttavia meravigliosamente indulgente da parte di Satta della vita di provincia, degli intrighi ecclesiastici, delle gerarchie del potere locale che si intrecciano nel Caffè Tettamanzi, appartiene all’arte narrativa analitica di Balzac, all’Educazione sentimentale di Flaubert. Ma la concentrazione dei testi, la tecnica lapidaria — Satta veramente scrive sulla pietra (litografia) — ottengono un effetto unico. Non c’è una frase superflua.
Il 16 luglio 1982, dopo un viaggio faticosissimo nel caldo incandescente, mia moglie e io arrivammo nella piazza S. Satta di Nuoro. Trovammo l’alquanto melanconica libreria che è il Centro degli Studi su Satta. Un dibattito per Il Giorno era stato organizzato nella Biblioteca Sebastiano Satta nel maggio del 1979. Un convegno internazionale veniva progettato per il 2002. Sono segni incoraggianti, ma anche a Nuoro la presenza largamente predominante è quella di Grazia Deledda, il cui regionalismo sentimentale ottenne il Premio Nobel nel 1926. Quando il romanzo (di Satta – ndr) fu tradotto in inglese, ne proclamai la grandezza in una recensione sul New Yorker. Ma, per quanto ne so, le vendite sono state insignificanti e Salvatore Satta è noto soprattutto come filosofo del diritto.
Di nuovo mi chiedo, perché? Il gradimento da parte dei critici e dei lettori è, in letteratura, spesso assurdamente arbitrario. Viviamo in un’epoca di impazienza. Le difficoltà debbono es-sere evitate. Il kitsch confessionale, l’erotismo facile, espressi in una prosa immediatamente accessibile, sono preferiti laddove si leggono libri. Nondimeno, scrittori passati inosservati in vita sono entrati, con il passar degli anni, nel canone e hanno trovato un vasto pubblico di lettori. Basta solo pensare all’accoglienza globale di Kafka, per esempio, o di Walter Benjamin o Borges. Benché se ne parli più di quanto li si legga, Joyce e Musil sono classici che si possono comprare in varie lingue e in edizioni economiche.
Tuttavia per qualche ragione sospetto che né Horcynus Orca né Il giorno del giudizio «sfonderanno».
Non vedo la formidabile saga di D’Arrigo o il classicismo di Satta sugli scaffali dei paper-back, particolarmente nell’anglo-americano che ora domina il pianeta. Spero di sbagliarmi.
Ma lo spero poi davvero? Gli incontri con i libri che ci cambiano la vita, che rieducano la nostra sensibilità sono ambigui come le relazioni intime. Da un lato desideriamo fortemente mantenerli privati, per noi stessi. Dall’altro vogliamo condividere la nostra fortuna, il nostro appagamento, con gli altri. Delle due posizioni, però, la discrezione è la più remunerativa. La magia suscitata in noi da un grande libro è meglio apprezzarla nell’intimità. O con una piccola tribù di compagni appassionati. Il segno d’intesa è condividere l’apprezzamento, ma con discrezione, una stretta di mano tra spiriti affini.
Sì, sono molto spiaciuto per l’ingiustizia fatta a queste due opere importanti e per la mia incapacità a porvi rimedio. Sono esasperato dall’indifferenza degli italiani verso due dei loro più grandi maestri moderni. Ma mi sento anche privilegiato perché ne so di più, perché porto con me un tesoro condiviso solo da pochi.
[George Steiner, 2003 – Da Il Corriere della Sera del 4 novembre 2003; Traduzione di Maria Sepa]
Nota (inclusa nell’articolo del ‘Corriere’)
Lo studioso
♦ L’autore di questo articolo, George Steiner (nella foto), è nato a Parigi nel 1929. È storico della cultura e critico letterario
♦ Docente in università americane ed europee (da Princeton a Stanford, da Cambridge a Oxford), è autore di numerosi testi, come «Tolstoj o Dostoevskij», «La morte della tragedia», «Le Antigoni», «Nessuna passione spenta», «Il correttore»
Nota ex-post (a cura della Redazione)
Francis George Steiner (Neuilly-sur-Seine, 1929 – Cambridge, 2020) è stato uno scrittore, saggista e accademico francese.
Immagine ritagliata dall’articolo del ‘Corriere’
[La riscoperta dell’Orca. (1) – Continua qui]