di Sandro Russo
.
Ricordate quello che si diceva dei vecchi? Che nei tempi antichi, una volta diventati inutili e di peso alla famiglia si legavano a un grosso ceppo e si lasciavano là a morire?
Storie narrate intorno al camino
In relazione alla mia curiosità, nata dall’accenno – solo un accenno – di Pasquale Scarpati (leggi qui, articolo e commento) ho chiesto un po’ in giro e qualche notizia è arrivata.
Abbastanza per farne uno spin off.
Nel giro del cinema e delle serie televisive si parla molto di spin off (letteralmente “ruotato via”, “al di fuori”), “con riferimento ad un elemento che si diparte da un corpo principale. È un’opera derivata, sviluppata da un’opera primaria, tipicamente una serie televisiva, un film, un fumetto o un videogioco, che mantiene l’ambientazione dell’opera originaria ma narra storie parallele focalizzando l’attenzione su personaggi diversi, spesso secondari nell’opera di riferimento (Wikipedia).
Viene fuori quando un personaggio di una serie, per esempio, riceve un grosso successo di pubblico: allora si prende quel personaggio, lo si isola e lo si fa diventare protagonista di un’altra storia.
Così i viecchie e ’u ceppone… Possono ben diventare il fulcro di un’altra ricerca.
Perché mi ha risposto Pasquale:
“Del ceppone ne sentivo parlare fin da bambino e ne ho avuto conferma quando ho fatto da tutor a dei giovani colleghi che insegnavano a Ponza e che dovevano passare di ruolo. Uno di questi rideva perché diceva che a Ponza si parla tanto di questo ceppone”.
E Sandrone Vitiello:
“È presente un po’ in tutti i ragionamenti di famiglie di un tempo
Una volta, senza pensione o assistenza sanitaria, era un costo avere un vecchio in casa. Questo per autotutela inculcava nei nipoti questa storia sperando in un po’ di benevolenza.Adesso avere un vecchio può essere fonte di reddito”.
Anche Enzo Di Giovanni ne ha sentito parlare:
“Confermo, anche nella mia famiglia era una espressione molto usata”.
E torniamo al film che mi ha innescato la possibile analogia.
Nel commento avevo annotato:
Nel Nord del Giappone c’è il Narayama, il monte delle Querce, sul quale secondo un’antica usanza religiosa, dettata dalle dure leggi della sopravvivenza ancora nel 1860 venivano trasportati i vecchi, passati i settant’anni di età, ad attendere la morte.
Così potente il dato storico-antropologico, da attrarre fortemente letteratura e cinema.
Dal romanzo Le canzoni di Narayama (1956) di Shichiro Fukazawa, portato sullo schermo come La leggenda di Narayama (1958) di Keisuke Kinoshita e successivamente con il titolo La Ballata di Narayama da Shohei Imamura (1983) – il film a cui mi riferisco io – vincitore della Palma d’oro come miglior film al 36º Festival di Cannes.
“Il film di Kinoshita, in stile kabuki, ha il volo alto della poesia, quello di Imamura è di robusto impianto realistico, tutto girato in esterni di montagna, impregnato di un culto della natura che s’esprime anche in una dimensione zoologica, un bestiario onnipresente” (dalla critica).
Trama del film che si riferisce a una tradizione giapponese in uso intorno alla metà dell’800:
I vecchi del villaggio montàno Shinshu – un miserabile agglomerato di capanne – raggiunti i 70 anni, vengono portati dai figli, per consuetudine “naturale” a morire sulla cima del Narayama, per consentire ad uno più giovane di sfamarsi. La vecchia Orin, al fine di far posto a una moglie per il primogenito Tatsuhei, si spezza i denti contro l’orlo di un pozzo per apparire più vecchia e così accelerare il proprio viaggio verso Narayama. Intorno a Orin si svolgono le vicende del secondogenito Risuke, semi-idiota allo stato quasi sub umano e dell’intero villaggio, che, fra l’avvicendarsi delle stagioni, i cicli di riproduzione della natura e gli accoppiamenti umani primitivi e furiosi, tenta di sopravvivere vendendo le bambine ai mercanti di sale, trucidando in massa i ladri di viveri in maniera raccapricciante, eliminando i neonati in sovrappiù e portando i vecchi a morire sulla montagna.
Nel film, come spesso si vede nei film orientali, la compenetrazione tra la Natura e gli uomini è totale, come la descrizione dei cicli naturali e le regole brutali della sopravvivenza: il serpente (che vive in casa) mangia i topi durante la buona stagione; i topi mangiano il serpente d’inverno quando va in letargo…
Il mio ragionamento è questo. Forse non a Ponza, ma nelle tradizioni dei coloni che a metà circa del ’700 si trasferirono sull’isola da Ischia e da Torre del Greco (rispettivamente gli stanziamenti di Ponza Porto e di Le Forna), questa usanza, o il suo ricordo, ci dovevano essere.
Certo anticamente i vecchi erano serbatoi di esperienza e prodighi di consigli, e per questo erano tenuti in gran conto, ma che succedeva di loro quando perdeven’ ’a capa o per altre malattie invalidanti legate all’età diventavano un peso, in quelle economie di sopravvivenza?
Chi sa qualcosa di più, parli (…scriva)!
Come si dice in questi casi… Chiedo per un amico!
Appendice (cfr Commento di Sandro Russo; data odierna)
Pietà (pietas) non l’è morta..!
In Amazzonia
Dodici ore a piedi col padre in spalla per farlo vaccinare
Sei ore di cammino nella selva brasiliana con il papà sulle spalle, e altre sei per tornare nel proprio villaggio: è l’impresa di Tawy Zoé, un giovane indigeno, per permettere al genitore di vaccinarsi. A raccontarlo il medico Erik Jennings che ha postato la foto su Instagram.
I due vivono nello stato di Pará, nel Nord del Brasile, una foresta protetta per il suo alto valore ecologico.
Sandro Russo
14 Gennaio 2022 at 13:10
Sono stato attratto – di più: calamitato – da questa foto, opposta e speculare a quella del film giapponese, del figlio con il padre sulle spalle… e non per portarlo a morire, ma a farlo vaccinare!
Pietà (pietas) non l’è morta..!
In Amazzonia
Dodici ore a piedi col padre in spalla per farlo vaccinare
Sei ore di cammino nella selva brasiliana con il papà sulle spalle, e altre sei per tornare nel proprio villaggio: è l’impresa di Tawy Zoé, un giovane indigeno, per permettere al genitore di vaccinarsi. A raccontarlo il medico Erik Jennings che ha postato la foto su Instagram.
I due vivono nello stato di Pará, nel Nord del Brasile, una foresta protetta per il suo alto valore ecologico.
Da la Repubblica del 14 gennaio 2022, pagg 8-9.
La foto nell’articolo di base
silverio lamonica1
14 Gennaio 2022 at 18:14
D’u ceppone, ce ne parlava mio padre Fausto (1896 – 1966) quando i miei fratelli ed io eravamo ragazzini.
“Dovete sapere che una volta, quando i papà e le mamme invecchiavano, i figli li portavano nei boschi e li facevano sedere su un tronco d’albero che sporgeva dal terreno a mo’ di sedile, dove li abbandonavano, lasciandoli morire. Un giorno un uomo portò il vecchio padre nel bosco e, proprio quando si accingeva a farlo sedere sul “ceppone”, il genitore disse ‘Ma guarda, proprio una quarantina d’anni fa portai proprio qui tuo nonno, mio padre’. Sentendo ciò, il figlio prese sottobraccio il papà e se lo riportò a casa”.
E’ chiaro che mio papà ci raccontava questo aneddoto per metterci sull’avviso: non abbandonatemi quando sarò vecchio, perché un giorno potrebbe toccarvi la stessa sorte.
Ho consultato anche “Alfazeta” il vocabolario dialettale di Ernesto, ove si legge: ceppone = eremo. Non risulta altro, a differenza di altre voci in cui si dilunga in dettagliate spiegazioni.
Sandro Vitiello
14 Gennaio 2022 at 19:11
Un ricordo di una lettura ormai annebbiata: un padre caricò il suo vecchio genitore in un grande cesto e lo portò verso il ceppone.
Dietro di lui camminava il giovane figlio.
Nessuno parlava lungo il viaggio.
Arrivati a destinazione il vecchio venne adagiato in prossimità di un albero e il cesto abbandonato lì vicino.
Il padre, senza neanche degnare di un saluto al vecchio, riprese la strada di casa.
Il ragazzo diede uno sguardo al nonno e dopo aver preso il cesto con sé si mosse dietro al padre.
Questo guardando il cesto disse al figlio di abbandonarlo, tanto non sarebbe più servito.
Il figlio rispose “Servirà quando dovrò portare qui te”.
Solo allora il padre capì la gravità del suo gesto e ritornò sui suoi passi, riprese il vecchio in spalla e lo portò di nuovo a casa.
la Redazione
16 Gennaio 2022 at 07:06
Da Polina Ambrosino il commento postato sulla pagina Facebook del sito a beneficio di coloro che non vi possono accedere:
“Non posso credere che nella nostra fede e cultura cristiana, si sia potuto, pur in tempi di grande povertà, portare i vecchi a morire al ceppone. Penso che fosse una sorta di leggenda che voleva intendere come i vecchi, specie se perdono i lumi o si invalidano, diventano un grande onere per i familiari e “dovrebbero finire al ceppone…”. Ma sono sicura che nella realtà cristiana non sia mai successo. Le eccezioni poi, ci possono essere state, ma lì più che di usanze, parlerei di cattiveria”
Luisa Guarino
16 Gennaio 2022 at 16:59
Ciò significherebbe che quella “cultura dello scarto” tanto deprecata da Papa Francesco non è frutto dei nostri giorni, ma esiste dalla notte dei tempi. In una società come la nostra una simile pratica fa davvero venire i brividi. Ma come Polina voglio considerarla soltanto una terribile “eccezione”.