di Francesco De Luca
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Una donna cammina lenta nelle ombre della sera. La strada conosciuta fin negli interstizi dei basoli le si presenta subdola. La camminata è insicura e lo è perché la sera aumenta il rischio di inciampo al suo passo usurato dagli anni. Perciò la donna ha con sé una lampada a pile. Vuole accenderla e, per riuscirci agevolmente, poggia a terra la torcia e insieme la borsa per liberare entrambe la mani.
Capisco l’intenzione e, per non farla inchinare un’altra volta, mi avvicino e prendo la torcia per porgergliela.
Non s’aspetta quel gesto e, soprattutto, non se lo aspetta da uno sconosciuto. Beh, questo no, sconosciuto proprio no. Conosco la signora da quando ero bambino e lei conosce me. La donna ha consumato un’età che le ha fatto perdere il controllo del corpo, ma la mente è ancora vigile. Il mio gesto la mette in sospetto, gira il viso e guarda torva chi le ha preso la torcia. Mi fissa e mi riconosce: “Si’ ‘u marito d’Ornella ” – mi dice, e si quieta.
Ha una figura rattrappita. Il corpo s’è ristretto, le spalle rimpicciolite, le gambe rinsecchite. Traballa e, nonostante questo, sfida lo scuro delle strade, la sconnessione dei basoli, la spinta del vento e va. Al mercato di mattina e in chiesa di pomeriggio.
Tiene vivo il corpo, sostiene la sua socialità, puntella la sua anima.
Questa immagine mi appare analoga alla comunità ponzese.
Difende l’esistenza come può. Non ha una struttura portante potente, la nostra comunità. Su malferme gambette poggia la sua economia. Insicura perché fondata sull’andamento dell’estate. Che, se è confortata dal tempo clemente, se la sostiene il blocco del turismo all’estero, se la congiuntura economica è favorevole, se… se… se tutte queste condizioni si intrecciano positivamente, allora la comunità isolana potrà contare su una esistenza florida. Ma i se sono tanti e l’imprevedibilità favorisce l’insicurezza. Soprattutto la sua gestione si mostra priva di una visione. Tutto poggia sul fiuto degli isolani. Oggi, improvvisati imprenditori turistici.
Sorregge questa presunzione imprenditoriale la generosità e la bellezza del patrimonio naturale dell’isola. Indifesa però nei confronti dei colpi dovuti alla fragilità litica dell’isola, all’assalto del turismo di massa, sia a terra, sia a mare. Con una eredità culturale che si va sfaldando in conseguenza dell’assottigliamento della residenzialità invernale.
Eppure non recede. Priva di una direttiva istituzionale e soggetta all’improvvisazione paesana, la comunità isolana affronta gli inverni con tenacia.
Talune criticità potrebbero essere affrontate e vinte. Mi riferisco, ad esempio, alla stupida divaricazione fra i due borghi: Le Forna e il Porto. Il tempo è maturo perché il contrasto evapori. L’isola si appalesa sempre più come una sola entità antropologica da tutelare nell’aspetto sociale, in quello istituzionale, in quello ecosistemico. Chi insuffla sulla divisione non solo è miope ma anche malfidato. Le Forna è il polmone salubre dell’isola perché ne rappresenta la zona dove la permanenza è più serena e più a dimensione familiare (mi riferisco al turismo). Soffre di alcune dipendenze che potrebbero essere colmate.
Potrei immergermi in argomenti di politica locale e… forse mi troverei senza fiato. Le Forna e i Fornesi attendono da anni che l’amministrazione giochi la sua efficienza sull’eliminazione delle ‘dipendenze’ dal Porto.
Mi fermo qui.
Mi chiedo: cosa resterà? E’ domanda retorica.
Resterà, ne sono certo, la lamentala della gente comune. E’ da mezzo secolo che implora. S’era studenti in calore di politica e già in un giornalino strampalato (Punto Rosso – anni ‘60) si mettevano in evidenza i mali della nostra isola. Resterà la delusione di non averne fatto oggetto di politica attiva. E con essa il rammarico.
L’anziana mi guarda inespressiva e si avvia nella sua strada buia, nella sera che ci avvolge tutti.
NdR: le foto a corredo dell’articolo sono di Silveria Aroma