a cura di Gianni Sarro, Tano Pirrone e Sandro Russo
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Seguito dell’articolo “La Classe operaia va in paradiso”… per Ponzaracconta (1)
Il preannunciato contributo di Tano alla comprensione del film in questione, con elementi maturati dalla sua esperienza personale.
La classe operaia non andò in paradiso… ma salvò comunque il culo, parola di un testimone poco attendibile
di Tano Pirrone
L’intervento a voce di venerdì scorso (in video-lezione su Zoom – ndr), sulla mia esperienza sindacale in fabbrica è stato, temo, un po’ confuso. Per questo desidero prima scusarmi per i toni forse troppo passionali e poi raccontarvi questa storia per iscritto. E, visto che nessuno ci prende il tempo, come agli operai che lavoravano “a cottimo” nella fabbrica dove si svolge il film di Petri La classe operaia va in paradiso (1971), potrò dilungarmi un po’ di più per far meglio comprendere quello che era la situazione generale del lavoro in fabbrica nel corso degli anni ’70.
Nonostante lo sbandierato “miracolo italiano”, nel Sud e, per quel che mi riguarda, in Sicilia, non si trovava lavoro e, cosa più importante, io non riuscivo a trovare lavoro. Avevo abbandonato l’università, rinunciando al rinvio della leva previsto per gli universitari ed avevo fatto il mio periodo di leva, che allora era di 14 mesi. Tutto tempo che era passato aggravando la mia situazione. Chiesi aiuto allora ad un mio conoscente, un ex parroco che aveva buttata la tonaca alle ortiche, convolando a santa convivenza con una mia parente (in paese, al sud, le parentele non finiscono mai, si sa). Il brav’uomo dopo qualche tempo mi avvisò che c’era la possibilità di entrare come operaio alla Fiat di Torino. Mi diede un indirizzo ed un telefono e mi assicurò che non ci sarebbero stati problemi: potevo partire tranquillo.
Tranquillo è una parola grossa, per chi ha già passato un inverno nella baraggia di Lenta (Vercelli) con temperature che avevano toccato i -12, proprio quell’anno, il 1966, delle grandi piogge, che offesero profondamente Firenze: l’Arno la sfigurò e migliaia di nostri giovani andarono ad aiutare. Io rimasi in caserma, per quasi un mese aspettando l’ordine per partire, ma non partimmo; il freddo però me lo ricordo bene ancora oggi.
Per fortuna non dovetti aggiungere a quel freddo quello da operaio alla Fiat. Mi arrivò inaspettata un’altra chiamata di altro genere e per qualche tempo fui tranquillo.
Per una imprevista combinazione andai, poi, a lavorare in un’azienda metalmeccanica di Palermo, come impiegato amministrativo-commerciale.
Il trasferimento a Palermo avvenne alla fine dell’estate ed io e un mio collega, come me appena assunto, vivemmo per diversi mesi nella tenda installata nel campeggio de La Favorita (l’antico affascinante parco che divide la città dal suo litorale di Mondello). Vita in tenda, piogge autunnali, accumulo bulimico di ricordi.
Volonté (Lulù) e Salvo Randone (Militina), nel film di Petri
L’azienda in cui lavoravo e in cui immediatamente mi ambientai, era una fabbrica nata alla fine degli anni ‘50, utilizzando i fondi messi a disposizione dalla Cassa del Mezzogiorno e destinati a industrie del Nord che avessero creato nuovi posti di lavoro al Sud.
Furono in parecchi a farlo, ma, fidando nella scarsa attenzione delle istituzioni, non impiantavano macchinari nuovi, bensì trasferivano al Sud le macchine obsolete; con i finanziamenti, nei migliori dei casi, rifacevano completamente il parco macchine, ridando competitività alle loro aziende padane. Quelle del Sud dopo qualche anno chiudevano.
Una di queste aziende, la gloriosa Bianchi (biciclette ecc.) in cattive acque fece l’operazione: portò i macchinari obsoleti a Palermo, prese i soldi, stette qualche tempo e sparì. Intervenne la Regione Sicilia per salvaguardare l’occupazione, c’era di tutto: pescatori, nullafacenti, raccomandati, galoppini elettorali, manovalanza mafiosa in incognito o ben conosciuta, almeno nel quartiere, ma anche brave persone con il bisogno di lavorare.
La Regione deteneva il pacchetto della società, attraverso l’ente appositamente creato per gestire le imprese (decine) rimaste vittime della elargizione non controllata (o complice, fate voi) dei finanziamenti: l’Espi (Ente siciliano di promozione industriale) che affiancava altri enti analoghi per l’intervento in settori diversi dall’industria metalmeccanica: chimica, estrazione minerali (zolfo), vinificazione (Casa vinicola Duca di Salaparuta), dolciaria ecc.
Riprendiamo il filo del racconto e vediamo che successe appena arrivato a Palermo e preso servizio in fabbrica. Mi iscrissi subito al sindacato cislino dei metalmeccanici, la Fim; la scelta fu meditata perché in Fim c’era molta apertura e possibilità di lavorare seriamente, più pluralità. Non per niente c’era Pierre Carniti a capo dei metalmeccanici cislini e Macario nel 1970 era diventato segretario generale della Cisl, proprio un mese prima che nascesse lo “Statuto dei lavoratori”, la famosa legge 300, che ha imbestialito tanti, ma che tantissimi ha difeso e contribuito a emancipare.
Su quest’onda si pensa all’unità sindacale: la “Triplice”, cerca di dismettere l’abito del Trio Pachiderma, ma a muoversi di più nel comparto metalmeccanico è la Fim, che nel maggio del 1972 celebra un congresso di scioglimento per avviare e promuovere l’opera di unificazione con le altre due sigle (Fiom della Cgil e Uilm della Uil). Il pachiderma genera un topolino: si crea una sigla unitaria, ma le tre organizzazioni non istituiscono un’unica casa comune. Erano le avanguardie nel momento più favorevole della storia del sindacato italiano, chi se non loro avrebbero potuto iniziare la svolta decisiva?
Nel 1973 Pierre Carniti affianca Macario alla guida della Cisl; lo sostituisce in Fim Franco Bentivogli. Il decennio si avvia alla fine: nel fatidico 1979 si conclude l’aspra vertenza per il contratto nazionale dei metalmeccanici, che faceva perno sul celebre slogan Lavorare meno per lavorare tutti.
Alla prima votazione della Rsu (Rappresentanza sindacale unitaria) venni eletto rappresentante degli impiegati, e, quasi automaticamente, fui cooptato nell’esecutivo. Nel tempo ebbi l’opportunità di collaborare anche con la Segreteria provinciale Fim, che aveva alla guida l’intelligente e capace Sergio D’Antoni, che al termine del cursus honorum nel sindacato divenne anche deputato del PD, come farà anche Marini e tanti altri sindacalisti delle tre confederazioni.
Com’era la fabbrica in cui lavoravo? Insediata a Partanna Mondello, un rione vicino la spiaggia più famosa di Palermo consisteva in un grande capannone, con a fianco una dignitosissima palazzina piano terra per gli uffici e la direzione, in fondo al piazzale c’era la mensa, grande, ariosa, pulita. A fianco dell’ampio cancello, una comoda e robusta portineria, affidata a personale di fiducia con – ho sempre sospettato – “radicamento” nella realtà locale. Dentro al capannone c’erano i reparti per la produzione di ingranaggeria di qualità: avevamo come cliente la ZF tedesca, che produceva cambi per le automobili tedesche e per l’Alfa Romeo; di conseguenza venivano effettuati controlli di qualità molto accurati. Fortunatamente avevamo operai tornitori e fresatori estremamente bravi, conoscitori delle macchine, quasi tutte obsolete, da cui traevano più di quello che quelle stesse macchine erano in grado di dare. Poi c’era il reparto in cui si costruivano motozappe e trattori gommati snodati anche di grossa cilindrata.
Da una ricerca fatta per controllare alcuni dati necessari alla stesura di questo scritto ho scoperto che in giro per l’Italia ed anche in Europa ancora oggi ci sono prodotti della OMR che funzionano e lavorano regolarmente.
Non vi nascondo che ho letto questo – ed ora ne scrivo – con un certo orgoglio.
L’azienda non riusciva ad essere economicamente autonoma, confermando che, se l’azienda si scosta dalla sua missione di produrre ricchezza, utile (distribuito al meglio, naturalmente), affonda, come sono affondate le economie dei paesi sedicenti comunisti, com’è affondata l’Alitalia, il Monte dei Paschi di Siena e tante altre iniziative economiche gestite per altri scopi che non fossero quelli per cui l’imprenditoria esiste: creare ricchezza, non disperderla od occultarla.
La lavorazione degli ingranaggi (per i clienti esterni e per l’uso interno) prevedeva il cottimo, ma ne ho ricordi sbiaditi e ad essi mi atterrò: il cottimo che è una forma di pagamento basato sulla quantità della produzione; questo assicura – in un uso coscienzioso da parte del datore di lavoro – che il lavoratore produca utilmente in base al tempo ed alle sue capacità. Poi il metodo è diventato strumento di sfruttamento. L’attuale contrattistica e le leggi in vigore lo regolano in modo, credo, sopportabile per entrambe le parti contrattuali. Nella nostra fabbrica era necessario per ottenere una produzione costante ed una costante dedizione al lavoro: tutti sapevamo la natura dell’azienda (regionale, tenuta in piedi per necessità sociali), in cui il clientelismo era ben presente e in molti ne abusavano.
Forze estranee all’azienda hanno giocato un ruolo importante per i lavoratori e, alla fine, per le sorti della sua sopravvivenza: la politica e la mafia.
La politica: la maggior parte se non tutti i dipendenti erano legati ad un’ideologia o a un partito o a una personalità politica: le clientele non le aveva date alla luce Palermo, anche se nella capitale siciliana, la parola ed il concetto retrostante erano diventate sistema, percorso storico, arte sopraffina ed umiliante di controllo e potere. In fabbrica c’era sempre, però, il massimo rispetto per tutti e fra tutti. Non ricordo scontri “politici”; sindacali si, spesso duri. Ogni tanto c’erano giovani compagni extraparlamentari a distribuire volantini all’ingresso, mai nulla che somigliasse alla canea rappresentata da Petri e credo usuale in tutto il nord.
C’era poi, di ben altro peso, la mafia, di cui, se non eri pratico non ti accorgevi. Era sempre presente, soprattutto, devo confessarlo, nei comportamenti di tanti operai: difendi il tuo a torto o a ragione era un principio etico inderogabile. Ne feci le spese, quando ingaggiai una battaglia perché, in nome della loro dignità, gli operai rispettassero gli orari, senza anticipare l’esodo dal posto di lavoro per raggiungere la mensa. Dove, bisogna riconoscerlo, la signora Riccobono (sorella di un mafioso che sarà nel 1982 vittima di lupara bianca per ordine di Riina), era gentile ma energica, cucinava bene e gestiva con efficienza.
Cultura mafiosa di massa, l’avevo definita e pensavo che ci sarebbero voluti decenni ed una scuola molto attiva per debellare o ridurre a livelli sopportabili e controllabili lo sconcio; e presenza discreta di mafiosi in fabbrica e nelle istituzioni operaie: di un operaio, collega sempre presente nel consiglio di fabbrica, seppi, dopo tempo, che era stato catturato con tutta la famiglia per traffico di droga agli ordini di un grosso boss cittadino. Il tizio veniva a lavorare con una luccicante Bmw ed io senza invidia godevo della mia Diane sgangherata. L’altro era un tizio strano della Uilm, che gestiva una pompa di benzina in un paese alle porte di Palermo. Seppi poi che era diventato un capo mafia e che aveva partecipato materialmente all’organizzazione della strage di Capaci, e che era l’unico presente con Brusca per comandare a distanza l’esplosione dei 400 kg di esplosivo. Morì suicida (?) nel 1993 a Rebibbia.
La fabbrica rifletteva la società in cui era inserita. Le difficoltà erano grandissime, ma non impedirono di fare esperimenti culturali importanti che fecero epoca: organizzammo un concerto serale in fabbrica, fra torni, alesatrici, trapani… Suonò jazz fusion mediterraneo il gruppo jazz palermitano di Claudio Lo Cascio.
Tutti contribuirono e per una volta sembrò a tutti che un’altra fabbrica era possibile!
C’era un rapporto di collaborazione fra la Rsu, struttura di rappresentanza di tutti i lavoratori e non soltanto degli iscritti alla Triplice, come comunemente erano chiamati, malevolmente, i tre sindacati nazionali.
Si collaborava il più possibile, arrivando nei momenti migliori di quegli anni ad azioni manageriali fatte in sintonia fra Direzione ed Esecutivo. Io stesso fui protagonista di un viaggio al nord presso il fornitore di motori delle nostre macchine agricole: un esponente dell’esecutivo di fabbrica e l’Amministratore delegato insieme per concludere accordi commerciali strategici, mai visto! Entrambi i ruoli avevano meritato fiducia, stima e rispetto dell’altra parte in causa.
Un secondo viaggio dovemmo interromperlo a Roma per cause di forza maggiore: tutta l’Italia si era fermata per il rapimento di Moro da parte delle Brigate rosse, era il 16 marzo del 1978 e il decennio breve si avviò così alla sua consunzione. Da quel momento sarebbe cominciato quello che venne chiamato il “riflusso nel privato”, che avrebbe, in campo sindacale prodotto, esattamente due anni dopo, la sconfitta insanabile della marcia dei quarantamila a Torino.
Io, nel frattempo, preparavo le valigie per venire a Roma, cominciava un’altra stagione, una lunga stagione, che dura fortunatamente ancora oggi.
Resta, intatta, l’eredità morale: ho avuto la fortuna di vivere la politica e l’impegno sindacale come luogo e metodo di confronto sociale ed umano con i miei prossimi.
Non fu facile, ma so con certezza che è stato bellissimo.
Sandro Russo
28 Ottobre 2021 at 11:32
Davanti al mio entusiasmo per il film di Petri “La classe operaia va in Paradiso” e per la discussione che ne è seguita, mi fanno notare dalla Francia – sempre sciovinisti questi francesi! – che il cinema d’impegno sociale e politico non l’hanno inventato Elio Petri e Francesco Rosi.
– Mai sentito parlare di un certo Godard?
– Sì, ma… – mi tocca rispondere per le rime…
Certo che sì! Da questo genere di film siamo attratti e respinti (perché è impegnativo e faticoso anche per lo spettatore) dai tempo di Costa Gravas (greco), con Z – L’orgia del potere (1969); conosciamo e apprezziamo la filmografia di Ken Loach (inglese), di Robert Guédiguian e dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne (francesi). Ci sono anche americani, come Michael Moore e Oliver Stone e perfino Fernando Solanas (sudamericano).
Ma questo film di Petri del 1971 è particolare perché fotografa “nel momento” i vari soggetti – operai, sindacati, studenti – che parteciperanno a quel dramma collettivo che furono in Italia gli anni di piombo.
Poi “a posteriori” si capirà meglio, ma i germi di quella deriva nel film ci sono tutti. E non è una cosa da niente!