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Mi rendo conto che un titolo del genere, per una comunità di isolani discendenti da pescatori e contadini possa risultare indigesto o quanto meno provocatorio. Posso assicurare che non vuole esserlo; io stesso sono stato pescatore, ho avuto parenti pescatori e tuttora mangio pesce, ma è un problema che mi sono posto spesso.
Ho trovato questa testimonianza stamattina – su la Repubblica on line – nel Blog di Concita De Gregorio, che ha trasferito sul Blog la corrispondenza con i lettori che prima pubblicava nell’edizione cartacea. Mi è sembrata interessante e meritevole di essere partecipata.
Il dolore del pesce
Michele Zaccone, 52 anni, nato a Napoli vive a Roma, insegnante (precario) di sostegno in una scuola media.
Michele ha lavorato in una comunità per minori e ora è insegnante di sostegno.
Quand’ero bambino e andavo con mio padre a pescare, ero convinto che i pesci non provassero nessun dolore. Saltavano fuori dall’acqua trascinati da in filo invisibile e da un amo infilato nella bocca. Qualcuno, addirittura, l’amo se lo ingoiava, ma non c’erano segni di sofferenza in quelle creature. Soprattutto, non emettevano nessun suono.
Per molti anni ho pensato che il dolore non espresso non fosse dolore. Ma non era cosi. Lo capii ad un tratto sulla mia pelle, quando incrociai la sofferenza che era dentro di me. Una sofferenza invisibile all’esterno, proprio come quella dei pesci che pescavo con mio padre. Avevo sempre un sorriso sulla faccia e il mio egocentrismo mi faceva sembrare una persona leggera che voleva solo gustarsi la vita. Per questo, le altre persone si sentivano autorizzate a farmi del male. Io continuavo ad ingoiare i loro ami e loro si divertivano a vedermi saltare fuori dall’acqua. Restavo ogni volta in silenzio con un’ espressione del viso sempre uguale, così i miei carnefici potevano non sentirsi in colpa per quello che mi avevano fatto.
Non erano loro ad essere insensibili, ero io che mi ero trasformato in un pesce. Averlo capito non mi ha però cambiato così tanto. Ho ridimensionato il mio egocentrismo e ho smesso di recitare il copione dell’uomo leggero, ma ho continuato a tenere dentro la mia sofferenza.
Non ho smesso di essere pesce e nemmeno pescatore. Ho solo capito che il dolore può essere silenzioso e nascondersi dietro un sorriso. E che ha perfino una sua bellezza, se hai imparato a guardarlo e a riconoscerlo.
[Da “Invece Concita” – Blog su la Repubblica on line del 9 aprile 2021
https://invececoncita.blogautore.repubblica.it/lettere/2021/04/09/]
Sandro Vitiello
9 Aprile 2021 at 17:10
I pesci soffrono mentre muoiono.
E se hai il coraggio di guardarli negli occhi mentre muoiono te lo fanno capire chiaramente.
La mia famiglia ha trovato da sempre sostentamento nella pesca e mai mi sognerò di dire che bisogna abolirla.
Io fino a non tanti anni fa andavo a pescare con mio padre e ho sempre molto apprezzato la bontà del pesce.
Però se si ha voglia di fare uno sforzo e capire cosa succede negli ultimi minuti di vita di un pesce -o di una seppia o di un’aragosta- capisci che sta soffrendo come un qualsiasi essere vivente.
Questo è molto più evidente quando si ha a che fare con pesci di taglia più importante.
Tanti ricordi.
Mio zio Girolamo che mentre toglie un amo dalla bocca di un pesce spada di quasi un quintale si becca in piena faccia un colpo della spada che gli apre il mento.
Io che con una rudimentale fiocina colpisco una murena che non gradisce per niente e cerca di aggredirmi fin quasi a mordermi.
Mia moglie che un pomeriggio d’estate mentre si andava in giro con la barchetta e si teneva al traino una lenza acchiappa una piccola ricciola. Lei che piano piano recupera la lenza e questo pesce che, salito a bordo, lascia sangue dappertutto e si dimena fino a riconquistare la libertà.
Non avevano scelto di morire questi pesci e non volevano morire.
Continueremo a mangiare pesce e carne ma non possiamo negarci che i pesci soffrono mentre muoiono.
Una cosa la abolirei volentieri.
Quella di pescare nei laghetti le carpe o altri pesci d’acqua dolce e poi ributtarli dentro dopo averli slamati.
Sandro Russo
9 Aprile 2021 at 22:35
Sarà che l’uomo, per comprendere il dolore degli altri esseri viventi, ha bisogno di compararlo con il suo. Sarà questo il massimo dell’empatia di cui è capace… Così è stato per chi ha scritto la bella testimonianza della lettera a Concita; così anche nella mia esperienza personale e di medico.
Ho visto persone, nei loro ultimi mesi o settimane dell’esistenza, attribuire alla “vita” un valore enorme, e più sentivano vicina la loro fine, più tendevano a apprezzare / difendere / privilegiare la vita in assoluto, anche quella di esseri per cui erano stati fino ad allora (relativamente) incuranti.
Se fosse vero un vecchio concetto della biologia comparata: “l’ontogenesi ricapitola la filogenesi”, cioè che lo sviluppo dell’individuo ripercorre quello delle specie (dall’embrione in ambiente acquatico all’uomo eretto), forse la consapevolezza della dignità delle altre vite potrebbe essere il traguardo finale della specie umana.
Patrizia Angelotti
14 Aprile 2021 at 20:01
Già, i pesci. La loro sofferenza è da anni un problema per me.
Mi piacerebbe molto pescare, mi dà tranquillità, ma non lo faccio perché quando vedo i pesci boccheggiare, non respiro più neanch’io… Mi immedesimo.
Mi sono sempre chiesta perché esista una associazione per la protezione di tanti animali, uccelli compresi, ma dei pesci no. Volevo fondarla io. Forse proprio perché sono muti?
Non ti descrivo la mia partecipazione notturna di quasi 40 anni fa alla pesca dei totani o simili. Una violenza inaudita che mi ha paralizzata. E’ da quegli anni che non mangio più l’aragosta che pure mi piaceva. Si mette viva nell’acqua bollente…
Su altri crostacei non mi informo vigliaccamente. Non vorrei dover rinunciare a tutto. Sigh!