di Francesco De Luca
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Quanti suoni dalle nostre cale. Fragori, sussurri, sospiri, gridi. E parole che narrano storie. Le cale raccontano.
Un ladro fra Bagdad e Ponza
Con zi’ Tore andavo a pesca. Mi portava per compagnia. Aveva la sua età, zi’ Tore, e con me si sentiva più sicuro. Non che io potessi essergli di valido aiuto. Avevo sì o no 10 anni e inesperto, però gli davo, così penso oggi, una certa tranquillità. Abitavamo vicino, sopra i Guarini. Lui aveva una barchetta a remi che lasciava in un grottino ai piedi della spiaggia di Chiaiadiluna. Per me era un’ avventura. Si scendeva giù in spiaggia, dal grottino con le falanghe si tirava a mare ‘u canuttiello (battellino), e a remi ci si allontanava. Le direzioni erano due. O verso punta Fieno o verso Capobianco. Di solito era qui che si puntava. Io ai remi e lui a innescare le lenze.
Papà faceva il muratore e non possedeva barche mentre zi’ Tore aveva trascorso la vita sulle motonavi come marinaio e, in pensione, aveva comprato la barchetta da mastro Staniso a Santa Maria. Il grottino era di proprietà della famiglia. La sorella, zitella, era morta e lui viveva solo. Con i parenti prossimi stava bisticciato per via di certe catene (terrazzamenti) di terra che avevano venduto a sua insaputa, mentre era lontano, imbarcato. Ne avevo sentito parlare dai miei genitori. Per me zi’ Tore era l’altra metà della famiglia. Una metà era papà, mamma, mia sorella Carmelina, la scuola, la chiesa, i compiti, i servizi, le domeniche, le feste, l’altra metà era zi’ Tore, la barchetta, la cattura degli scuncilli (murici), la messa in posta d’u camage (filo legato allo scoglio e fluttuante, con amo), la fossa a murena, i nassielle, ‘u specchio p’i fellune, le lenze ‘a perchie. Ogni stagione la sua pesca, gli strumenti appositi, gli orari, i vestiti, la preparazione.
Queste attività le svolgevo lontano dai coetanei e perciò per me erano qualcosa di particolare, di eccezionale. Mi illuminavano di esperienze uniche. Anche nei confronti dei compagni. Chi andava a caccia col padre, chi faceva il vino, chi serviva messa, io andavo a pesca con zi’ Tore.
La barchetta, l’ho già detto, era a pochi metri dal mare, e protetta. Non tanto in verità, perché una volta, dopo una libecciata, trovammo la porta della grotta scardinata e lo scafo di traverso perché le onde erano salite fino alla base della falesia. La porta aveva retto quel poco ma il mare era entrato con forza e aveva martoriato la barca. Non tanto se no l’avrebbe sfasciata.
Quando il tempo era stabile e il mare era calmo, in estate e in inverno, zi’ Tore andava a pesca. A calamari, nei mesi freddi non mi ha mai portato. Era troppo per me. I miei non avevano niente in contrario perché il pescato che portavo a casa aiutava a mandare avanti la famiglia. Eppoi zi’ Tore era un uomo di cui ci si poteva fidare. Per me era come un padre. Ma io lo trattavo come uno zio. Così mi aveva comandato papà e così facevo.
Era un fumatore accanito. I pacchetti di sigaretta andavano e venivano. Una volta stavamo pescando a perchie nel canale di Palmarola, io stavo prendendo più di lui, e lui sfogava il malumore fumando come un forsennato. Io lo guardavo e lui faceva finta di non essere interessato, sembrava assente e fumava con avidità. Ad un certo punto incrociò il mio sguardo e sbottò: “non prendere il vizio del fumo… nun fa comm’ a me… addeviente nervuse… e staie aggitato… i pisce sentono ‘sti cose… e se teneno luntane…”.
Sto raccontando tutto questo per portarvi al fatto di cui volevo parlarvi… quello importante… per me… e pure per Ponza. Perché un giorno… credo in giugno… ora sono passati 70 anni… si stava al termine dell’anno scolastico e preferii seguire zì Tore invece di andare a scuola. Già nel tunnel d’accesso alla spiaggia c’era un via vai di gente. Strano. Ma la stranezza maggiore la vedemmo sulla spiaggia. C’erano tante persone. A gruppi. Chi stava con telecamere e trespoli sulla battigia, chi stava con altre telecamere lontano, quasi all’altezza dove prima c’era il ristorante di Giacomino, alcuni stavano su una impalcatura che toccava la roccia all’entrata, tanto che dovemmo stare attenti nel passare. C’era uno stuccatore che stava componendo sulla facciata della roccia, all’ingresso del tunnel, venendo dal mare, una rosa, una rosa azzurra.
Ma poi c’erano Silverio Zecca, da noi chiamato Zecchetiello e Mimì Dies con un signore che dovrebbe essere stato Bruno Vailati. Dico così perché si stava girando il film Il ladro di Bagdad, anno 1961, regista Bruno Vailati, protagonista Steve Reeves. La rosa azzurra era l’indicazione che il ladro di Bagdad doveva seguire per trovare il toccasana al fine di guarire la figlia del Sultano, la principessa, afflitta da un male incurabile. Più lontano c’era pure l’attore protagonista, vestito in modo da evidenziare il suo fisico da campione di body building (Mr. America). Accanto c’era una combriccola di amici ponzesi in attesa di fare le comparse, come compagni di avventura del ladro: Ugo, Tommasino, Angelone. Erano conosciuti da Bruno Vailati che in quegli anni frequentava Ponza, dove aveva trovato sostegno nei valenti subacquei ponzesi, di cui si servì anche per i film: Sesto Continente, La battaglia di Maratona, e per i cortometraggi di ambientazione marina.
Qualche parola in più merita il clima sociale di cui stava godendo Ponza. Non più ‘luogo di pena’, andava a dispiegare agli sguardi ‘liberi’ dei vacanzieri le sue bellezze. Descritte con pennellate magistrali dal pittore Carlo Fontana (morto nel 1982), anch’egli a quel tempo ospite dell’isola. Dove le balze “verzicano di filari d’uva”, e le acque si fanno “smeraldo e viola-vescovo negli anfratti delle grotte ai pie’ dei faraglioni”, e finanche i paesani sono raffigurati con bonaria simpatia.
Quel mattino pure Zi’ Tore si attardò a guardare. C’erano infatti da un lato un gruppo di donne. Alcune indaffarate con cestini e borse, altre a mettere in mostra i loro vestiti da odalische. Nulla di male, anzi tutto bene perché sotto i veli c’erano splendidi corpi di fanciulle.
Noi, io e zi’ Tore, fummo attratti da quelle tante persone che si muovevano e si agitavano e parlavano e gridavano pure, ma pure noi fummo oggetto di attenzione mentre, buttata a mare la barca, ci allontanavamo solitari verso quello sperone bianco: Cape Ianco.
Sandro Russo
30 Gennaio 2021 at 18:53
Ricordo benissimo quel periodo. Mentre Franco De Luca faceva il suo apprendistato di pesca cu’ zi’ Tore, mio cugino Franco Zecca e io facevamo gli aiuto-camerieri al ristorante zi’ Capozzi, di proprietà della mamma di Franco, Lucia Capozzi, ereditato dalla nonna (‘A Capozz’, al secolo Antonietta Capozzi). Era un mestieraccio, ma si facevano incontri interessanti. E qui volevo arrivare, perché la troupe del film citato da Franco DL mangiava al ‘nostro’ ristorante e Steve Reeves a suo modo era la star del gruppo. Ricordo che da buon culturista-esibizionista spesso si produceva nel suo numero preferito, che era quello di schiacciare una noce tra l’avambraccio e il braccio, flettendoli e gonfiando il bicipite.
La cosa mi deve aver colpito – ero ragazzino anch’io – e le storie estive me le rivendevo nei freddi inverni di Cassino, dove abitavo con i miei genitori.
Ora, a parte che mia madre, da buona ponzese, non riuscì mai a imparare il nome dell’attore – continuava a dire Stiverìne – c’era anche che io non sono mai riuscito a rompere una noce in quel modo. Ma diventò una specie di tormentone di famiglia; non c’era cena con parenti e amici, che qualcuno non mi chiedeva: E ià’… fa’ comm’e Stiverìne!
Francesco De Luca
31 Gennaio 2021 at 09:26
Spero che questo chiarimento sia esteso a tutti i miei racconti. In essi io sono soltanto il narratore, non il protagonista né un testimone. Sono colui che presenta le vicende che si snocciolano. Così come è inutile sforzarsi di individuare le persone vere celate sotto i nomi di comodo. Quello che di vero e reale c’è nei racconti è l’ambientazione isolana, con luoghi, personaggi e atmosfera d’epoca. Valga per sempre.
Grazie.