di Tina Mazzella
Nel ringraziare la Redazione per la pubblicazione del mio racconto “Ialò”, raccolgo volentieri l’invito a continuare questa speciale collaborazione inviando un nuovo mio scritto dal titolo “Chiaia di Luna”, tratto dalla mia omonima raccolta ed ispirato dalla nostalgia del mare di Ponza e dalle suggestioni scaturite da antiche leggende narratemi dalla nonna Libera.
Ne approfitto per augurare buona Pasqua a tutti i ponzesi, che hanno la fortuna di vivere in un’isola di fiaba.
Tina Mazzella
Il vento era freddo ed il mare muggiva rabbioso in quella cupa giornata di Dicembre.
Fu soltanto per vincere un soffocante stato di ansietà che uscii di casa e mi aggirai a lungo per le strade deserte.
Quasi senza accorgermene, imboccai l’antico tunnel che conduce alla spiaggia di Chiaia di Luna, la meta preferita dell’estate. Di là, il fragore dei marosi rimbombava ancora più sinistro e minaccioso.
Fui sul punto di ritornare indietro; poi però, il desiderio di contemplare dall’alto la tempesta mi soggiogò e mi spinse a proseguire.
Quando sbucai all’aperto, vidi che la spiaggia non esisteva più: montagne d’acqua che, rotolando su sé stesse, si rincorrevano, si accavallavano senza tregua, arrampicandosi sulle rocce, l’avevano sommersa.
Tentando di ripararmi in qualche modo dal vento, mi fermai ad osservare la furia degli elementi, provandone insieme paura e stupore.
Mi sentivo smarrita, prigioniera di quell’isola lontana, un essere insignificante e solitario in balia di forze oscure.
D’un tratto, da quel tramestio confuso di acqua spumeggiante e di sassi, emerse una voce, dapprima flebile e soffocata, poi sempre più distinta e chiare furono anche le parole che udii.
Subito mi guardai intorno alla ricerca di qualcuno, ma non c’era anima viva.
Un pensiero terribile mi fece accapponare la pelle: in passato, tante volte la nonna, con estrema gravità, aveva sostenuto che, durante le tempeste, se ci si sofferma in riva al mare, si possono percepire i lamenti dei morti che vagano per l’acqua senza pace.
Feci per fuggire, ma fu quella voce che ormai sovrastava il rumoreggiare delle onde a trattenermi; fu quella voce così viva, così vera, così umana ad ammaliarmi.
“Molto tempo fa”, diceva la voce, “ebbi modo di comparire sulla Terra e trovai dimora in quest’isola.
Forse fui una bambina, o forse no, fui una donna, non lo ricordo più, ma tutto questo non ha alcuna importanza ora. So soltanto che, a dispetto della mia piccola statura, ero sorprendentemente saggia, più saggia di tutte le compagne, molto più saggia persino degli anziani della comunità. So pure che amavo la vita con il suo splendore e con il suo tepore.
Mia madre, nel mettermi al mondo, mi aveva chiamato Luna, in ragione del colore delicato, quasi trasparente della mia pelle.
Avevo avidi occhi di ladra, pronti a rubare immagini e a catturare colori, per imprigionarli tra le pupille, trattenendoli stretti, al pari di incomparabili tesori.
Avevo mani forti e sapienti, mani di fata, disposte ad apprendere, abili nel modellare, capaci di creare e di imprimere un’esistenza propria a tutto ciò che gli occhi vedevano.
Avevo una voce limpida: sapevo cantare canzoni e, se con le dita sfioravo appena le corde del liuto, riproducevo struggenti melodie.
Riuscivo a comprendere le persone, guardandole in viso: leggevo nei loro cuori la gioia o la pena più segreta e a volte, come per magia, la felicità ed il dolore prendevano corpo nella mia mente, diventavano suoni, parole, musica e zampillavano fuori all’improvviso, come acqua fresca di sorgente.
I pennelli, i colori e le tele costituivano le sole mie ricchezze, il mio mondo, la mia libertà. Essi annullavano il ritmo monotono del tempo, uccidevano gli affanni, mi incoronavano regina, mi facevano grande e potente, al pari di una dea orgogliosa di plasmare ogni creatura, lieta di generare dal nulla il proprio universo.
Lui però non voleva una regina e tanto meno una dea: nella sua casa da sempre regnava sovrano un unico grande re, esisteva un solo dio onnipotente.
Lui mi voleva figlia, moglie e madre. Lui mi voleva donna, donna sorridente e docile, ancella umile e devota, disposta a servire ad occhi bassi e con la testa vuota, filatrice, tessitrice, laboriosa massaia, dedita completamente alle occupazioni femminili.
Lui voleva tutto questo e voleva il mio corpo e la mia mente e non si accorgeva intanto che, pur tenendomi stretta, mi andava perdendo ogni giorno di più.
Nel silenzio che ci avvolgeva, non udiva il mio pianto, non percepiva che gridavo altri suoni, non avvertiva che sognavo altri mondi, che vedevo altre cose, oltre l’angusta cerchia delle mura domestiche.
Talvolta mi reputava una pazza o peggio una strega e, con lo stesso accanimento con il quale io mi affannavo a procurare tele, pennelli e colori, Lui s’impegnava nel distruggerli, quasi fossero infernali oggetti di magia nera. Per porre in salvo le mie creature da quell’insana follia, ero costretta a nasconderle in luoghi lontani e più sicuri; ma sapevo che la lotta era impari e che a me sarebbe toccata la sconfitta.
Era una dolce sera di primavera, una di quelle sere in cui il mondo può apparire così bello, che il cuore prova un indicibile desiderio di balzar fuori dal petto, per fondersi con quel meraviglioso sereno che splende intorno. Me ne stavo seduta sulla sabbia tiepida, intenta ad afferrare almeno un raggio di quella luce tanto viva in certi tramonti, che pare sia sul punto di incendiare il mare, allorché me lo sentii arrivare alle spalle.
Era sudato ed acceso in volto ed i suoi occhi erano duri; con un cenno imperioso della mano, mi ingiunse di seguirlo.
Ci incamminammo muti, Lui davanti accigliato e severo, io dietro tremante e colpevole.
A casa, sprangò la porta, lacerò le tele, gettò via pennelli e colori e, afferrate le forbici, ciocca dopo ciocca, tagliò tutti i miei capelli.
“Finalmente la gente saprà chi sei!” – Tuonò fissando la mia testa nuda e liscia.
“Ora non avrai l’ardire di mostrarti in pubblico e te ne starai in casa, come si conviene ad ogni donna per bene!” – Concluse definitivo.
Accadde così che da quella sera, io divenni una prigioniera, la sua prigioniera.
Nell’uscire, Lui sbarrava le imposte e chiudeva a chiave la porta.
Io rimanevo sola e spesso al buio; a volte ne soffrivo, a volte però, una parte di me volava lontano, mi portava la luce, il profumo dei boschi e degli scogli, mi suggeriva all’orecchio parole nuove, mi teneva compagnia.
Servendomi di poveri mezzi di fortuna, ricoprivo le pareti della casa di incisioni e di disegni: apparivano animali, esseri misteriosi, figure umane e scorci di paesaggi. Niente ormai poteva fermarmi, neppure gli occhi di Lui che ogni sera mi fissavano sempre più torvi.
Nel corpo e nel sangue pulsava una vita segreta, nelle mie pupille erano impresse immagini e colori, si materializzavano e svanivano visioni.
Come erano calde le notti d’Agosto!
Dalla finestra spalancata, fece capolino la Luna.
Il carro dell’Orsa rimaneva sospeso nel cielo, come in attesa.
Fu un richiamo acuto, più forte di ogni paura, più potente di ogni divieto.
Risposi senza indugio e, cauta, scavalcai la finestra e mi incamminai per le vie addormentate.
Il cuore batteva in fretta, ma il passo era fermo. L’insperata libertà mi dava le vertigini, mi rendeva ebbra di gioia. L’aria vivificante mi accarezzava la pelle, mi ristorava, mi faceva fremere.
Mi diressi verso il mare, per ascoltarne la voce, il mormorio lieve, per respirare ancora il suo fresco aroma di erbe sconosciute e di salsedine. Il chiarore degli astri e della luna, rompendo l’oscurità, mi faceva da guida e mi rendeva più audace.
All’improvviso però, qualcosa ruppe quella pace profonda.
Si udirono rumori lontani e voci concitate, un fischio, un abbaiare di cani, uno scalpiccio sul selciato: qualcuno gridava il mio nome ed il mondo parve scoppiare intorno a me.
Era Lui. Lui che, avendo scoperto la mia fuga notturna, mi stava dando la caccia; allora, come un animale braccato, mi attivai con tutte le forze, nel tentativo di trovare una via per la salvezza: Lui no, non mi avrebbe raggiunta.
Pazza di terrore, mi lanciai in una corsa folle e disperata.
Mi arrampicai su per il sentiero che conduceva alla sommità della collina. Mi inerpicavo leggera, quasi avessi le ali ai piedi, incurante del buio, delle insidie del terreno, dei sassi e dei gradini sconnessi, che rendevano più faticosa la salita, non badando ai rovi che mi si conficcavano nelle mani e nelle gambe. Volevo distanziarlo, fiaccarlo, fargli perdere le mie tracce.
Lui però m’inseguiva caparbio, m’incalzava, non mi dava tregua.
Lui non era avvezzo alla sconfitta e già i suoi occhi, penetranti come spilli arrugginiti, mi trapassavano la schiena, il suo ansimare affannoso mi esplodeva nel cervello, mi mozzava il respiro.
Sapevo che la mia era una fuga assurda e senza scampo e ciononostante non intendevo arrendermi. Niente e nessuno avrebbero potuto intervenire in mio soccorso…
Lungo il pendio dell’altura non esistevano viottoli in cui sarei riuscita a trovare rifugio, né sulla cima c’erano ripari. Mi aspettavano lassù rocce nere ed aguzze che cadevano a strapiombo sul mare.
Mi fermai in attesa sulla vetta brulla, gli occhi perduti sulla misteriosa distesa scura che tremolava in basso.
E Lui non tardò; udii l’uggiolare dei cani, i suoi passi, il suo respiro.
Vidi le sue mani protese nell’atto di afferrarmi, e fu allora che forse per sfuggirgli o forse… non so, mi trovai sospesa nel vuoto. Precipitai giù, sempre più giù, in una lontananza opaca ed inanimata, da cui è impossibile il ritorno.
Non provai dolore, allorché il corpo si dissolse in una miriade di minuscole particelle vaganti.
E divenni soffio di brezza, che spira lieve nelle sere d’estate, goccia d’acqua trasparente e salata dalla quale a poco a poco scaturisce la vita, scintilla di quel fuoco, che arde silenzioso nelle profondità oscure della terra, per esplodere all’improvviso sinistro e terribile dalla nera bocca di un vulcano, magma incandescente, lava inesorabile che distrugge, e cenere poi, che rende la terra più fertile e feconda.
E fui granello di sabbia, pietra colorata, cullata dalle onde, pietra misteriosa e millenaria, come tutte quelle che trovano asilo su questa spiaggia, sorelle e compagne di un viaggio senza fine.
Siamo noi che, durante le notti di burrasca, rianimate dall’alito di quella vita che un tempo ci rese grandi, riacquistiamo la forza di ricordare, per regalare agli uomini ancora un palpito della nostra breve esistenza”.
La voce tacque ed io rimasi immobile ad ascoltare il pianto rauco del mare, che seguitava ad agitarsi senza pace.
Sovente poi, durante le notti di burrasca, mi sono recata a Chiaia di Luna per raccogliere quelle storie dimenticate e, per salvarle dall’oblio, una dopo l’altra, le ho trascritte su questo quaderno.
Tina Mazzella