Ambiente e Natura

Le tre F: Festosa. Fruibile. Friabile

di Pasquale Scarpati

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Ho scritto tre “articoli” (una sorta di trilogia) collegati gli uni con gli altri. Comincio con l’inviare il primo che  richiama (ma soltanto per il suono) le famose tre F di borboniana memoria (Feste, Farina e Forca).
Buona lettura
Pasquale

 

Festosa. Non era raro vedere la banda musicale attraversare le vie, preceduta da un codazzo di bimbi che saltellavano e marciavano al ritmo della musica. La stessa banda a volte accompagnava tristi cortei funebri al cui passaggio si chiudevano le imposte delle case, delle case-negozio o dei negozi veri e propri. “A ben pensare – ha detto qualcuno – quelle rimanevano aperte, di giorno, in tutte le stagioni ad eccezione ovviamente di notte”. Frequenti processioni invocavano l’aiuto del Cielo. Chianozze e martelli risuonavano un po’ dappertutto e la sega dal manico di legno con la lama da una parte e il tirante dall’altro faceva sentire il suo stridio.

Festosa. All’arrivo d”u vapore. La gente si accalcava nei pressi della passerella per osservare, salutare e parlottare. Sull’imbrunire la gente si radunava presso la Casa Comunale chiamata a raccolta “d’ù pustier” che, tribuno popolare, leggeva i nomi dei destinatari della corrispondenza. Visi lieti, visi tristi, occhi curiosi e speranzosi.

Festosa. Quando “Sigarett” faceva riempire di suoni e rumori la banchina e quando le “vaccine” a nuoto guadagnavano la riva sotto Mamozio o alla banchina o quando qualcuna, “furest”, scappava per ogni dove, inseguita e circondata sui lati, tirata per la coda. “Acchiappa, tira, oh oh!” – si sentivano voci concitate provenienti da dietro la curva dove c’era il forno D’Atri. “Scappa, scappa”. Imposte che rapidamente si chiudevano. Giunta al trivio (discesa per Sant’Antonio, Via Nuova e Salita della Dragonara) la bestia piegava a sinistra probabilmente perché qualcuno le aveva già sbarrato le altre due vie di fuga, finendo per imboccare la via obbligata, la più ardua: la salita. Filomena aveva già chiuso le imposte del negozio, l’altra Filomena si era affacciata dal ballatoio, Furtunatina dal balcone e zia Malvina dalla piccola finestra. Scalpiccio di zoccoli che scivolavano sui bordi degli scalini scivolosi mentre qualcuno si appendeva alla sua coda e qualcun altro si attaccava pericolosamente alle corna. Sguardi curiosi ma anche impauriti per l’insolito spettacolo. Alla fine l’animale, stanco, si lasciava addomesticare e docilmente si faceva condurre all’ultima grotta, nauseabonda, che stava ind’ ‘o ruttone i’ Sant’Antonio. Non senza avere lasciato sulla  strada un appariscente “ricordino” che sarebbe sparito solo con la prima pioggia.

Festosa. Quando la gente, china nelle “catene” del Ciglio o del Pagliaro o dello Schiavone, si dava la voce per salutare e/o raccontare nei momenti in cui drizzava la schiena.

Festosa. Perché si saliva sulla Guardia per portare il necessario a quelli che, come aquile, risiedevano lassù.

Festosa. Quando bande di bambini schiamazzanti giocavano lungo le vie inseguiti dai rimproveri degli adulti e soprattutto degli anziani che vedevano interrotta la loro tranquillità.

Festosa. Quando si udivano persone che, litigando, alzavano la voce. Essa si andava ad aggiungere a quella delle mamme che dai balconi o dalle finestre chiamavano i figli “scapestrati” i quali quasi sempre erano “duri d’orecchio” perché intenti a pazziare con i compagni.

Festosa. Quando qualche sposa inciampava in un bambino intento a raccogliere confetti duri come le pietre e/o soldini lanciati dalle guantiere e a fare a botte o sgomitare con gli altri coetanei.

Festosa. Quando i pescatori dal volto stanco, dalla barba incolta e dai vestiti che sapevano di mare, offrivano a gran voce, lungo le strade, spaselle ‘i pesce che, se invenduto, era ributtato a mare (senza obbligo di legge!) oppure era cucinato con ingredienti semplici secondo la tradizione o in pietanze inventate in quel momento dall’estro della padrona di casa.

Festosa. Quando si vestiva e si veste d’oro e quando più dimessamente diveniva e diventa bruna. Ma nel primo caso accoglieva una miriade di uccellini festanti, nel secondo facevano festa gli uomini perché lungo tutte le pendici di tutte le colline si vendemmiava e mi sovviene: “…i tuoi colli per vendemmia festanti…”. (U. Foscolo: Dei Sepolcri). Asini carichi di ceste, uomini con ceste sulle spalle, colme dei preziosi grappoli, caracollanti nei sentieri scoscesi, voci di donne e voci di bimbi che correvano felici per le “catene” di terra. Nonna Tummetella ti invitava a tagliare l’uva e zia Giuditta, ti serviva il suo “derivato”. Tra un bicchiere di vino e l’altro, ti faceva notare il pavimento a “spina di pesce” degli antichi Romani. Potevi inoltrarti ed esplorare l’antica Grotta del Serpente, anche se abbandonata e circondata da folte canne, ma dovevi stare attento a qualcuno che si era nascosto là dentro, cercando un… piacevole rifugio. “Permesso… scusate il disturbo!” avresti dovuto dire!

Come le gocce d’olio d’olivo si stendevano con il dito su una grossa fetta di pane condita con un po’ di sale e veniva addentata con gusto da bocche voluttuose, così questa vita Festosa. si spalmava in tutte e quattro le stagioni. Tra lavoro e svaghi pulsava senza soluzione di continuità per 12 mesi l’anno! L’anno era sempre uguale e i ritmi delle stagioni si alternavano senza troppa differenza. D’inverno sciarpe, cappelli e cappotti pesanti coprivano tutti. In primavera ci si cominciava a liberare degli indumenti pesanti, ma gli anziani dicevano che maggio era ancora infido e bisognava aspettare giugno per “imbognare tutto”. Così arrivava l’estate: la Stagione per eccellenza.
Era la stagione dell’Amore, era il momento in cui l’isola si concedeva: diventava totalmente fruibile.

Fruibile in tutta la sua essenza.

Caro lettore, tu potevi godere tutto l’anno della sua compagnia, anche se eri costretto a restare più giorni per mancanza di collegamenti, ma, ti assicuro, ne valeva la pena. Se le tempeste frenavano il tuo cammino o il lavoro oppure altro ma volevi godere soltanto del sole cocente e del mare calmo, devi sapere che nel breve arco della rada del Porto avevi facoltà di scegliere su quale tipo di “rena” poterti adagiare!
La Caletta e Sant’Antonio, dalla rena più sottile, ti davano la possibilità di costruire tra l’altro anche castelli di sabbia e/o di scavare buche. Ma ‘u summariello, unico posto dove si poteva avanzare per parecchi metri con l’acqua bassa, dove la rena, a volte, a causa della bassa marea, affiorava a chiazze, non ti precludeva lo sfizio di una bella summezzata o panzata dalla piattaforma naturale costituita da ‘u scoglio ‘i fore. Stava lì a pochi metri di distanza. Quando il mare diveniva padrone di se stesso, quello era il posto ideale per una fortunata pesca a marmule: servivano poche cose, na’ lenz e due trapolini o tremmulini!

Facevi pochi metri, a nuoto o a piedi, ed ecco una battigia più granulosa, che faceva affondare i piedi. Lì diveniva più difficile costruire castelli e uno scalino ti induceva subito a dare bracciate. Passavi sotto l’arco dello scoglio di Frisio e ti sembrava di passare sotto un arco imperiale. Ma già la spiaggia che si presentava ai tuoi occhi era diversa da quella precedente. Dopo di che non avevi facoltà di raggiungere a piedi la solitaria Marenella d’i mort’:. ci dovevi arrivare o a nuoto oppure cu ‘na lanza. Dovevi stare attento a ‘i cchiane che lì sono numerose, pertanto ti divertivi a fare un po’ di… gimcana ma rigorosamente con i remi. Dovevi saper siare e manovrare contemporaneamente il destro e il sinistro: uno avanti e uno indietro.

Novello Odisseo, ti dovevi letteralmente barca-menare ora tra “Scilla” ora tra “Cariddi”. Ti assicuro: il divertimento non era virtuale! Dopo ‘u Turone o dopo ’u ruttone ‘i Santa Maria arrivavi a una spiaggia dai ciottoli un po’ più grossi che fanno un male ai piedi. Lì l’odore del mare si mescolava a quello della resina e del legno adoperato per i bastimenti tirati in secco. Quando uscivi dal mare dovevi faticare un pochino per addentrarti sulla spiaggia, ma a volte ne valeva la pena. Come dire addò c’è gusto non c’è perdenza.
Oppure, se non volevi far soffrire i delicati piedi, te ne potevi stare immerso tra l’acqua e la battigia disteso come una foca, cacciando piccoli spruzzi d’acqua dalla bocca. Nel contempo, eventualmente scambiando qualche battuta con qualcuno/a che si crogiolava al sole sulla spiaggia. L’onda ti lasciava fare: era pigra, quasi sorniona; non è “arrabbiata e agitata” come oggi a causa del viavai di natanti. Che volevi di più?

Ma se non volevi stancarti a fare il periplo di tutte queste spiagge, ecco la soluzione: non dovevi fare altro che recarti, per terra o per mare, alla spiaggia di Frontone dove, in un’unica spiaggia, erano sommate tutte le tipologie degli arenili del Porto. A destra, se vieni dal mare, una sabbia più sottile accoglieva le persone che andavano a fare le sabbiature per cercare di alleviare i dolori delle ossa: bella rovente perché baciata dal sole fin dal primo mattino. A mano a mano che ti spostavi verso l’altra parte, la battigia era formata da rena sempre più grossa. Così da una parte della spiaggia potevi fare un semplice bagno, da solo o in compagnia; dall’altra, se eri da solo, ti potevi divertire a trovare rufoli, o sei avevi caldo potevi godere per primo dell’ombra che avanza; se eri in compagnia devi sapere che non era mai molto affollata. Se invece andavi a Chialiuna, lì trovavi ciottoli di tutte le dimensioni, ma dovevi stare attento al catrame nascosto che, insidioso, faceva la “spia” di dove eri stato. Non mi voglio dilungare perché l’elenco sarebbe lungo, per l’appunto: a te il piacere della scoperta!

Ma se non preferivi la sabbia che spesso dà fastidio perché s’appiccica dappertutto e te la trovi tra le dita dei piedi e delle mani, nulla di più bello che fruire delle chiane, belle, pulite; degli scogli della Scarrupata o di altri che stanno lì, a pelo d’acqua, per tenere freschi i piedi e nel contempo far abbronzare il corpo senza soffrire. A tal proposito è doveroso bagnarsi nelle bianche e fresche Piscine Naturali. Se, però, il sole cocente ti dava fastidio, ti abbagliava e non sopportavi a lungo il calore intenso dovuto anche ai riflessi sulla pietra vulcanica, non dovevi fare altro che “andar per cale”: cercar rifugio in qualche anfratto di qualche cala o caletta, avevi soltanto l’imbarazzo della scelta!

Come una meridiana ti spostavi mentre seguivi il cammino del sole, e osservavi, se volevi o se avevi modo, il tempo che impiegava per passare da un ciottolo a un altro. Potevi pensare che la tua vita assomigliava a quel ciottolo: illuminato da una parte e ombreggiato dall’altra. Pensavi pertanto che, coabitando con gli altri, avevi facoltà di mostrare e mostrarti a tutti oppure di nascondere o nasconderti; comunque secondo la tua volontà: dipende e dipendeva da te. Pensavi infine che giungerà la notte e non sai se rimarrai al tuo posto e/o sarai stato utile per qualcuno o qualcosa: se su di te, ciottolo, stracquerà un totano, o un’alga ti verrà a trovare, oppure un verme o un piccolo granchio si intrufolerà sotto di te per nascondersi dai predatori o per mettere su famiglia, oppure un’onda ti porterà lontano senza lasciare nessuna traccia.

 

Ma se fruivi di un mezzo galleggiante anche minuscolo: una semplice tavola, un grosso sughero, ‘na cammera d’aria di camion piena di toppe o, risalendo nella gerarchia, ‘nu sandulino o nu canotto o ‘na lanza, nulla di meglio che entrare e godere della frescura delle Grotte Azzurre o di quelle di Pilato o del Core, o addentrarsi nel labirinto di Capobianco. Lì potevi sostare quanto volevi: nessuno ti sfrattava. Potevi ammutolire per la loro bellezza oppure gridare per sentire il rimbombo della tua voce oppure, meglio ancora, era l’occasione giusta per dare la mano a qualche persona che preferiva essere guidata. Se però avevi paura del buio o qualcuno che stava con te non voleva, avevi facoltà di rimanere all’ombra di un faraglione (ce ne sono tanti, tutti belli e differenti gli uni dagli altri) o sotto l’arco dello Spaccapurp’, ma forse preferivi quello piccolino del Bagno Vecchio più nascosto e privé. Ogni tanto ne uscivi e facevi in modo che la fresca acqua ti coprisse per intero, assaporando la salsedine sulle labbra ed eventualmente passandola dolcemente o fugacemente ad altre fresche e dolci labbra.
Pensa, lettore, avresti potuto soggiornare per un mese o forse più, perché avresti potuto fruire quotidianamente sempre di cose nuove: nuovi paesaggi, nuove circostanze, nuove realtà che andavano e vanno ammirate e gustate!

Fruibile pertanto, totalmente come dolce frutto che va assaporato e gustato per intero, così l’Isola nel suo splendore e nei suoi profumi.
Così vaga il pensier mio e il naufragar m’è dolce in questo mare (G. Leopardi: l’Infinito).
Qua e là qualche masso che scivolava e andava a nascondersi nel mare, anelando a raggiungere i suoi simili, dava l’idea della sua friabilità.
Era un masso isolato che comunque ci diceva che l’isola era ed è friabile.
Quanto più le cose sono preziose e belle tanto più sono friabili. Un vestito di seta è bello ma facilmente si sgualcisce o si strappa perché è delicato. Una pietra preziosa, incastonata, può comunque scivolar via e sfuggire.
Noi o, per meglio dire, gli adulti del mio tempo conoscevano la sua fragilità: sapevano che era friabile e, forse anche inconsapevolmente, avevano rispetto del suo modo di essere.
A me sembra, però, che delle tre “F”, solo quest’ultima sia rimasta. Anzi è divenuta talmente maiuscola da oscurare quasi tutto, così l’isola mi suggerisce l’idea di una vecchia panchina…

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