di Paolo Mennuni
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Storia, leggenda e… un po’ di botanica, che non guasta!
Può una pianta, un albero, sopravvivere a sé stessa nella memoria degli uomini così come avviene per gli esseri umani, al pari di un uomo illustre?
Per quanto riguarda il genere umano ciò avviene perché gli uomini proiettano se stessi nel futuro con le loro azioni: vuoi che si tratti di artisti, scienziati, letterati o personaggi storici.
Ebbene, ciò può avvenire anche per alcune piante, ovviamente alberi, cui gli uomini attribuiscono particolari significati o funzioni evocative di fatti veri o presunti che poi finiscono per confluire ed integrare credenze e leggende più o meno aderenti alla realtà.
Sono così passate alla storia alcune piante cui gli uomini hanno attribuito particolari funzioni evocative di fatti ed episodi che si svolgevano sotto le loro sacre ed imponenti chiome. Non sottovalutiamo il fatto che per gli antichi il Genius loci, lo spirito protettore del luogo, spesso albergava in una pianta ritenuta sacra.
Esistono tuttora strade e piazze intitolate ad alberi: a Roma la piazza “del Popolo” non celebra il popolo dell’Urbe ma, appunto, un antico pioppo, in latino Populus; a Bruxelles esiste una rue de l’Arbre Benit (ossia dell’Albero Benedetto) dove venivano sospesi i condannati “finché morte non sopravveniva”, secondo la formula ben sperimentata e tutt’ora valida. In questo caso l’albero rappresentava addirittura l’Istituzione e sopravvive ora nella targa stradale a lui dedicata e che tramanda, a perpetua memoria, l’alta funzione svolta dall’ignaro vegetale!
La storia non ci narra di che specie si trattasse ma dato l’onusto pondo che l’albero doveva sostenere doveva trattarsi di una robusta quercia.
A Napoli, per citare tempi ormai lontani e trapassati, si invoca ’o Chiuppo a Furcella, (il Pioppo a Forcella) che nel tempo aveva adornato la popolare via.
L’albero di cui ora intendiamo parlare, e di cui elencheremo scrupolosamente le caratteristiche dendrometriche, botaniche e medicamentose, era ben noto già nel Medio Evo, ma è ancora evocato ai nostri giorni: il Noce di Benevento.
La storia comincia tanto tempo fa. Nel 571 la città di Beneventum venne conquistata dai Longobardi che ne fecero la capitale del loro ducato, detta anche Longobardia Minor, importando la loro religione e i loro riti che continuarono a praticare per molto tempo prima di convertirsi al cristianesimo. In particolari solennità essi si riunivano, fuori dalle mura della città, presso un albero sacro al quale appendevano pelli di serpenti che, nel corso di danze frenetiche, e di scorribande a cavallo, strappavano, e forse mangiavano perché i longobardi ritenevano che gli spiriti si celassero negli alberi e nei serpenti.
Gli abitanti del luogo – ormai da tempo convertiti al cristianesimo, e quindi esclusi da tali rituali – che li osservavano a rispettosa distanza cercando di interpretare questi riti pagani a modo loro, per le lunghe chiome dei celebranti li ritennero tutti di sesso femminile. Di qui la facile conclusione che, poiché quando qualche cosa veniva fatta soltanto da donne finiva con l’avere un sapore di mistero e poiché la Chiesa non prevedeva rituali esclusivamente femminili, quella doveva necessariamente essere opera del demonio, ergo si trattava di streghe!
La fantasia dei buoni cristiani, però, non si fermò in loco e travalicò i confini del contado per affermarsi in tutta la regione ed anche oltre ma con tale forza e convinzione che molte “streghe”, inquisite e condannate, non mancarono di “confessare” di aver partecipato ai “sabba” che colà si svolgevano nelle notti tra il venerdì ed il sabato (giorni dedicati al ricordo della Passione di Cristo).
Dette “confessioni” abbondavano di descrizioni particolareggiate sul come le streghe facessero a raggiungere rapidamente (oggi si direbbe in tempo reale!) il capoluogo sannita e poi ritornare altrettanto celermente al luogo d’origine.
Le “croniche” del tempo ci narrano che, nel 1428, una certa Matteuccia che esercitava le sue arti magiche in quel di Todi, dinanzi al tribunale che l’interrogava spiegò come, cospargendosi con un unguento da lei stessa preparato e recitando una litania appropriata riuscisse ad assicurarsi il viaggio di andata e ritorno per la notte stessa utilizzando, come mezzo di trasporto, una scopa o un capro nero. Naturalmente gli scrupolosi verbalizzanti riportarono anche le parole magiche che suonavano all’incirca così: “Unguento, unguento / mandame a lo noce di Benevento, / supra acqua et supra vento / et supra omne maletempo!”.
La cosa peggiore fu che i saggi ed addottorati giudici la presero in parola e le credettero per cui, nonostante questo suo atteggiamento accomodante (oggi si definirebbe una collaboratrice di giustizia!) anziché fruire della protezione di polizia, nonché di un congruo appannaggio come oggi (o tempora o mores!), la poverina, pur avendo fornito informazioni così utili alle indagini ulteriori ed all’affermarsi della Giustizia, finì ugualmente bruciata sulla pubblica piazza forse in omaggio al principio dura lex sed lex!
Comunque la sorte dell’Albero sacro era segnata e la Storia stava per fare giustizia di quell’infamia perpetrata dai barbari miscredenti; nel 663 i bizantini, che avevano riconfermato il loro potere su intere regioni dell’Italia meridionale, ora minacciavano il Ducato di Benevento.
In tale frangente il duca Romualdo, giustamente preoccupato per le sorti del suo dominio, si rivolse all’autorità ecclesiastica. Il vescovo Barbato (forse all’insegna del non è vero ma ci credo!) fu perentorio: “Dio ti farà vincere se rinuncerai al cullato dell’albero sacro!” forse ricordando l’“in hoc signo vinces” di qualche secolo prima!
Romualdo promise e vinse.
Barbato, che aveva vinto anche lui, senza indugiare indisse una processione che giunse fino ai piedi dell’Albero sacro, ora maledetto, lo abbatté e lo fece sotterrare, sperando così di esorcizzare tutti i malefici che da quell’albero e da quel luogo potessero trarre origine.
Purtroppo, per lui, non fu proprio così, la fama del noce di Benevento non si appannò e, anzi, continuò ad alimentare leggende e credenze ancor oggi molto diffuse a livello popolare.
San Barbato abbatte il noce (incisione beneventana del XVIII secolo)
Questo prologo, un po’ lungo e forse tedioso, è il pretesto per introdurre la pianta di cui vogliamo parlare: il noce, appunto.
Quest’albero, nobile e superbo, fu tenuto in gran conto fin dall’antichità e, dai Romani, fu dedicata al padre degli dei Giove. Infatti il termine botanico Juglans altro non sarebbe se non la crasi delle parole Jovis glans, ossia ghianda di Giove o, addirittura… il glande di Giove!
Molto presto gli uomini impararono ad apprezzane il legname, peraltro molto pregiato, nonché i frutti ricchi di calorie e molto versatili nelle più svariate composizioni alimentari. Inoltre, la serbevolezza del frutto, che può essere consumato secco, consentiva, specialmente in tempi passati, di accumularne grandi quantità e di disporre di un alimento altamente nutriente, durante i freddi e lunghi inverni.
Il noce (Juglans regia Linn.) è una pianta originaria dell’Asia centro-occidentale, vegeta in Italia nelle zone fitoclimatiche del Lauretum freddo e del Castanetum, è un albero di terza grandezza (compresa tra i quindici e i trenta metri, longeva (150-200 anni), è caratterizzato da un tronco robusto e dritto e può raggiungere 1,50 m di diametro, con corteccia grigio argentea che con gli anni si scurisce e si fessura, rami patenti che formano una corona ampia; le foglie picciolate senza stipole, composte con foglioline alterne imparipennate, lunghe fino a 30 – 35 cm; le foglioline son subsessili, da 5 a 9, obovate o ellittiche, intere e acuminate all’apice, di colore verde lucido alla pagina superiore e più pallido in quella inferiore, la fogliolina apicale è picciolata e più lunga delle altre.
Juglans regia Köhler s Medizinal Pflanzen (da Wikipedia)
I fiori sono monoici (amenti o gattini): i maschili penduli, di colore verde-bruno e situati in posizione ascellare sui rami dell’anno precedente; si sviluppano dopo un mese, un mese e mezzo dalla ripresa vegetativa. I femminili terminali (1-5) eretti, sui ramuli dell’anno ed hanno l’ovario infero e sono più tardivi (ritardo di un mese un mese e mezzo).
Il frutto è una drupa ovato-globosa con epicarpo verde lucido, glabro, carnoso e ricco di tannino (mallo), endocarpo legnoso ovoide, corrugato, bivalve (noce); seme quadrilobato, ruminato, ricco di sostanze oleose, ricco di sostanze oleose e commestibile(gheriglio). La fioritura è primaverile (maggio).
Tronco di noce nero americano (Juglans nigra), varietà originaria dell’America settentrionale, coltivata soprattutto per il legname.
La sua drupa è una noce, di forma più rotonda di quella comune, dura e molto legnosa; commestibile, ma non commerciabile a causa dell’estrema durezza del guscio legato al gheriglio
Le utilizzazioni del noce sono molteplici ed interessano tutte le parti della pianta dalla corteccia alle foglie ai frutti, alle infiorescenze. La corteccia si raccoglie dai ramoscelli in primavera quando è più ricca di linfa e, parimenti in primavera, le infiorescenze e le gemme. In estate si raccolgono le foglie, il mallo alla caduta dei frutti e lo si fa essiccare all’ombra.
Il decotto di corteccia, fresca o secca, è un ottimo vermifugo; quello di foglie secche può essere adoperato per uso interno contro il diabete, il rachitismo e il linfatismo mentre per uso esterno per le mani e per pediluvi. Le tisane di infiorescenze sono efficaci contro la diarrea e la dissenteria, mentre, più concentrate, possono essere impiegate per impacchi e abluzioni o per irrigazioni vaginali e clisteri contro le emorroidi.
Il noce Pecan (Carya illinoensis) appartiene anch’esso alla Famiglia delle Juglandaceae ed è originario della zona al confine tra Messico e Stati Uniti. Il frutto è commestibile e molto apprezzato
Un ottimo depurativo è costituito dalla linfa fresca, assunta al mattino, nelle dose di un cucchiaino al giorno. L’unguento di gemme fresche è un ottimo rimedio per il cuoio capelluto: infatti combatte la forfora e al caduta dei capelli!
Ancora, la polvere di mallo essiccato e macinato è un ottimo disinfettante e cicatrizzante e con i frutticini ancora immaturi (raccolti a giugno verso la ricorrenza di San Giovanni) lasciati macerare in alcool puro si ricava un ottimo liquore: il nocino che consigliamo caldamente. Per tutti gli altri rimedi ci si può egregiamente rivolgere in farmacia acquistando i prodotti della farmacopea ufficiale risparmiando tempo e fatica!
La povera Matteuccia, se avesse potuto, avrebbe detto molto di più e meglio sul noce in genere e non solo su quello di Benevento, ma, purtroppo i suoi segreti sono andati perduti con il fumo e le ceneri del rogo, così come quelli di tante altre sventurate donne che avevano la sola colpa di aver carpito empiricamente i segreti delle erbe e delle piante; quegli stessi segreti che ancor oggi ci stupiscono e a volte ci guariscono anche!
Bibliografia essenziale
– AA.VV. : “Alberi e arbusti dell’Emilia-Romagna” Edizione a cura della Regione E. R. (Azienda regionale delle foreste); 1983
– U. Boni e G. Patri: “Guida alle erbe” ed. Gulliver 1997
– M. Méssegué: “Uomini, erbe, salute”. Ed. Oscar Mondadori; 1974
– L. Fenaroli: “Gli alberi d’Italia”. Ed. A. Martello Milano 1967
– Aggiornamenti attuali: da Wikipedia, l’enciclopedia libera (dove indicato)(
Di Paolo Mennuni – Agronomo e forestale