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“I can’t breathe”. Da quando la civiltà nera ha preteso di respirare? Da quando ha reclamato con fierezza il suo posto al sole? C’è tanto sole in Africa. Purtroppo l’Europa partecipa pienamente alle colpe del mondo occidentale.
Mi pongo queste domande con un interesse ancora più forte da quando ho un nipote etiope, Sitotaw, arrivato tra noi nel 2013, che afferma con orgoglio la sua identità. Per conoscere meglio il continente dove è nato mi sono abbonata ad una rivista promossa dai“Pères blancs”, intitolata “Africa”, dove emerge una visione dinamica, vitale e variegata, delle varie nazioni africane.
Le copertine di alcuni numeri della rivista Africa, del 2017 e del 2019. Sotto la n° 3 e la n° 4 del 2020. Immagine di copertina: l’ultimo numero della rivista, dell’ottobre 2020
Nel numero 4 del 2020, un articolo di Mario Giro raccontava della seconda riunione di un gruppo di intellettuali neri, avvenuta nel 1959 – indovinate dove? – a Roma. Questo articolo del dott. Giro (uomo politico nei governi Renzi e Gentiloni, consigliere del Ministro per la Cooperazione internazionale Riccardi nel 2012, da innumerevoli anni membro della Comunità di Sant’Egidio) mi ha riportata agli anni della mia infanzia, quando la mia tata gollista mi cantava “Le chant des Africains”, canto militare delle truppe d’Africa. “C’est nous les Africains qui revenons de loin / Nous venons des colonies pour défendre le pays / Et nous gardons au coeur une invincibile ardeur / Car nous voulons porter haut et fier / le beau drapeau de notre France entière!”
Mi chiedevo allora perché mai gli Africani fossero così contenti di morire per una bandiera straniera! Probabilmente c’era una proiezione del mio status di italiana che studiava in una scuola in Francia! Così, file di soldati marciavano davanti ai miei occhi sventolando una bandiera che non era la loro e cantavano a squarciagola in lingua gallica! Non sapevo allora che l’Africa era venuta in aiuto agli alleati durante la seconda guerra mondiale: i “tirailleurs” senegalesi avevano combattuto fianco a fianco ai Francesi, mentre le colonie inglesi ebbero l’aiuto dei King’s African Rifles.
Dunque i soldati africani avevano combattuto per difendere ideali di libertà e di democrazia. Il Presidente Roosevelt in persona aveva proclamato il diritto all’autodeterminazione ed aveva parlato della possibile autonomia delle colonie occidentali.
Gli Africani, finita la guerra, vollero, giustamente, applicare i principi per i quali avevano combattuto ai loro paesi; essi reclamarono pertanto la transazione da colonia a stato indipendente. Per i primi nazionalisti africani (vorrei citarne alcuni dell’area francofone e non: Jomo Kenyatta in Kenya; Kwame Nkrumah in Ghana – allora Gold Coast – Julius Nyerere in Tanzania – allora Tanganica – ; Léopold Sédar Senghor in Senegal; Nnamdi Azikiwe in Nigeria; Sékou Touré in Guinea; Patrice Lumumba in Congo Belga. Non posso scordare, in una situazione tuttavia diversa, Nelson Mandela, avvocato che lottò contro l’apartheid e visse 27 anni in carcere, premio Nobel per la pace e Presidente del Sud Africa dal 1994 al 1998) la decolonizzazione fu un imperativo morale.
Il primo territorio d’Africa ad ottenere l’indipendenza fu la colonia britannica della Gold Coast che, fondendosi con il Togo, divenne nel 1957 il Ghana. Mentre Mozambico ed Angola (diviso tra vari movimenti, FNLA, MPLA e UNITA) dovettero aspettare la Rivoluzione dei Garofani per staccarsi dal Portogallo. Ma fu, soprattutto, nel 1960 che molti paesi, tra i quali il Congo, proclamarono la loro indipendenza. Il 1960 è, pertanto, un anno cruciale. Ma questa è storia politica…Veniamo ora alla proclamazione di un’identità culturale specifica.
Il congresso degli intellettuali neri si tenne a Roma nel 1959. Ci parla di una battaglia questa volta ideale per il riconoscimento della cultura e della civiltà sia africana sia afroamericana e portò avanti il concetto di “Négritude”. Fu il secondo di tanti convegni; il primo si tenne a Parigi nel 1956. Come sedi, a Roma, vennero scelte il Campidoglio e l’Istituto Italiano per l’Africa. Picasso mise un suo disegno nella locandina. I congressisti furono ricevuti dal papa Giovanni XXIII che non sottovalutava l’importanza dell’Africa per la Chiesa.
Il tema della Negritudine mi è sempre stato caro. Non ho mai mancato di aprire una finestra, nel mio insegnamento della letteratura francese, sulla “Francophonie” e dunque sulla letteratura del Maghreb (Fatima Mernissi e Tahar Ben Jelloun) e dell’Africa nera, insistendo sul problema della doppia identità linguistica che poneva il conflitto tra la lingua veicolare del paese dominatore e la lingua madre degli scrittori.
Aimé Césaire (1913-2008)
Fu un poeta della Martinica Aimé Césaire, uno degli intellettuali di lingua francese più conosciuti al mondo, a coniare, nel 1939, il termine “Négritude”. Questo concetto nacque tra i giovani africani che studiavano in lingua francese, che frequentavano in Francia l’università e che lottavano contro le idee razziste. A tal proposito non scorderò mai il razzismo strisciante che, seppur bambina, percepivo nell’album del fumetto del belga Hergé “Tintin au Congo” del 1931.
Questi studenti africani rifiutavano la sopraffazione e proclamavano, ad alta voce, la dignità dell’Africa e dei valori culturali di tutto il mondo nero.
Il poeta Léopold Sédar Senghor, amico e sodale di Césaire, primo scrittore nero ad essere eletto all’Académie Française nel 1984 e futuro Presidente del Senegal, sviluppò questo concetto in “Négritude et Humanisme”.
Leopold Sedar Senghor (1906-2001)
Dopo la guerra Aimé Césaire, aveva già riunito, in un’antologia per la quale Sartre scrisse l’introduzione, le poesie degli scrittori francofoni africani.
Senghor incarna superbamente la figura dell’africano che porta in sé una lacerante doppia identità. Nelle sue poesie, scritte in lingua francese, lottano l’amore per la sua patria elettiva e l’amore per la sua terra. Era sempre un’emozione grande leggere con i miei allievi i versi di “Aux tirailleurs sénégalais morts pour la France” (“Hosties Noires: “Ecoutez-moi, tirailleurs sénégalais, dans la solitude de la terre noire et de la mort (…)” e ascoltare i dibattiti provocati dalla lettura di “Le Racisme expliqué à ma fille” di Tahar Ben Jelloun,, quando mi spostavo in Marocco.
IMMAGINE
Ma l’animo umano è complesso. La fierezza reclamata nel concetto di negritudine venne contestata dall’Africa stessa: troppo utopistica, essa non teneva conto delle differenze politiche, culturali ed etnografiche dei numerosi popoli africani.
Wole Soyinka, 1934
E’ stato uno scrittore nigeriano premio Nobel nel 1986, di lingua inglese, Wole Soyinka, di recente in Italia, ospite del Festival Insieme (leggi qui), a riassumere in una frase le critiche mosse al concetto: “Una tigre non proclama la sua Tigritudine, una tigre salta!”.
In un contesto totalmente diverso – luogo, epoca, dinamiche relazionali e sociali – gli afro-americani stanno scandendo la stessa frase.
Quel che offende e ferisce è che, dopo più di sessanta anni, gli uomini che vengono definiti “neri” debbano ancora lottare e gridare “Black lives matter”…