di Nerio Gridella
Nerio Gridella, 61 anni, nato a Cesena, laureato in Geologia all’Università di Bologna, vive e lavora in Africa da oltre 35 anni, soprattutto in Mozambico, ma con lunghe permanenze anche in Tanzania e brevi soggiorni in Malawi, Zambia, Angola, Zimbabwe, Iswatini (ex Swaziland) e Sudafrica. Ha sempre operato nel settore costruzioni, e attualmente in quello della consulenza e ingegneria. E’ sposato da oltre 27 anni con una mozambicana, ora italiana; ha due figli e quattro nipoti. Collabora ogni tanto con alcuni giornali della Romagna. Da qualche anno è collega di lavoro di mio marito Dante, che ha fatto da tramite per questo scritto. Anche io ho avuto il piacere di conoscerlo, durante i miei soggiorni a Maputo, capitale del Mozambico.
Luisa Guarino
Il dottor Helder Martins
Ho letto in questi giorni un articolo molto interessante di Helder Martins, anziano medico portoghese-mozambicano, già ministro della Salute nel primo governo post indipendenza, poi funzionario senior dell’Oms per oltre 11 anni e successivamente con vari incarichi presso la stessa organizzazione.
Martins fa un’analisi della situazione attuale della pandemia a livello mondiale per osservare che fino a questo momento, quando nel resto del mondo sembra che si stia raggiungendo il picco dell’epidemia, l’Africa non ha mantenuto le previsioni catastrofiste di una fulminea e letale propagazione della pandemia stessa.
Di fatto le condizioni (carenza di alimentazione, precarie condizioni di igiene, impossibilità di mettere in atto un vero isolamento, stato agonizzante della salute pubblica, eccetera) erano decisamente e drammaticamente avverse.
Ma questo non si è tradotto, fortunatamente, in un contagio fuori controllo e in una perdita di vite umane paragonabile con Europa e America. Perché?
Secondo Helder Martins, quattro sono le cause principali e determinanti:
1) Il fatto che le pessime condizioni di igiene in cui vive generalmente la popolazione, con frequenti focolai infettivi (dalla normale infezione intestinale al colera, il tifo, la salmonellosi, etc) e mortalità infantile purtroppo ancora assai alta, sottoponga la popolazione africana ad aggressioni infettive continue fin dalla nascita, con conseguente sviluppo di una sorta di “immunità di gregge” nella popolazione sopravvivente.
2) L’ampia diffusione della malaria (soprattutto nell’Africa sub-sahariana) che potrebbe anch’essa provocare una “immunità indotta”. Nota giustamente il medico che i Paesi dove la diffusione del Covid 19 è stata fino ad ora maggiore sono stati Sud Africa, Egitto, Algeria e Marocco, tutti Paesi dove la malaria non esiste.
3) Il fatto che i popoli africani abbiano beneficiato del cosiddetto Programma allargato di vaccinazione (Pav), dove alcuni di questi vaccini, come il Bcg (antitubercolare) e l’antipoliomielitico sono “vaccini vivi”, più propensi a sviluppare un effetto protettivo.
4) Tutta l’Africa, e in particolar modo quella sub sahariana, gode, durante tutto l’anno, di vastissima esposizione solare, abbondante radiazione ultravioletta ed elevate temperature (ad esempio in Mozambico ci lamentiamo per il freddo in giornate con 20 gradi!). Ciò favorisce l’uso di vestiario leggero tutto l’anno e dunque l’esposizione della pelle al sole che provoca notoriamente livelli plasmatici adeguati di vitamina D (il cui beneficio, quanto meno in termini di letalità, è ampiamente provato).
Va anche considerato, sebbene questa abbia più influenza sul tasso di mortalità che non su quello d’infezione, che le popolazioni dei Paesi africani hanno età medie molto basse e percentuali di abitanti over 65 quasi irrisorie, se paragonate con quelle europee e americane.
Quest’analisi mi sembra interessante e sensata, e comunque per chi vive in questi Paesi rappresenta una boccata di speranza, in attesa che si giunga a trovare un vaccino efficace nei prossimi mesi.