di Sandro Vitiello
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Quando muore in mare un pescatore la notizia non arriva sulle prime pagine dei giornali. Mica parliamo di calciatori o di artisti.
E’ gente semplice, che mette la passione per il mare davanti a tutto. Davanti alla più banale delle domande – ma conviene ancora andare a pescare? – chi vive del mare non cerca una risposta.
Se è bel tempo si va a pescare, se è brutto si aggiustano le reti.
E’ gente così, gente essenziale. L’amore per il mare spesso passa davanti agli affetti.
Bisogna esserci nati e vissuti in una casa dove il capofamiglia e gran parte dei suoi figli maschi si mettevano in mare con le peggiori tempeste.
E a casa rimaneva una moglie con le figlie femmine e il maschio più piccolo – io – ad aspettare, con il terrore che quel giorno potesse succedere di tutto, in mezzo al mare.
Bisognava starci in quella casa e domandarsi perché ad una certa ora, quando le barche avrebbero dovuto tornare a terra, se non appariva all’orizzonte la sagoma di un mezzo conosciuto, le imprecazioni diventavano lamenti e la paura cominciava a diventare terrore.
Le donne come mia madre sono morte mille volte pensando ai mariti e ai figli in mezzo al mare, nei giorni di tempesta.
Oggi ci sono le radio ricetrasmittenti, i telefoni e tutte le moderne tecnologie.
Una volta c’era solo l’esperienza e la speranza; che tutto andasse bene.
Oggi i nostri mari sembra siano diventati più sicuri, ma non è vero; sono più affidabili le informazioni meteo, molto più precise.
Sono più sicure le barche con motori che raramente ti lasciano in panne ma il mare non è cambiato. E chi si trova in mezzo ad una tempesta non è sicuro di venirne fuori vivo.
Bisogna vederlo il mare quando è cattivo per davvero e tu ti ci trovi in mezzo.
Bisogna sentirlo il rumore che fanno le nervature della barca quando va a sbattere contro un’onda grande come una casa.
Quelle vibrazioni ti entrano dritte nello stomaco e cambiano l’espressione del viso di chi ha la responsabilità di portare a terra l’equipaggio sano e salvo.
Poi, quasi sempre, se ne esce vivi e quella giornata diventa parte di un racconto lungo una vita.
Perché chi ha vissuto certi momenti non se li scorda più.
Un paio di giorni fa tra San Vito lo Capo e Ustica, in Sicilia, è scomparso in mare un piccolo peschereccio: il Nuova Iside.
L’equipaggio era composto da Matteo Lo Iacono, suo figlio Giuseppe e il cugino di questi Vito.
Il mare, ad oggi, ha restituito solo il corpo di Giuseppe.
Pescavano pesci spada con le coffe, come tante delle nostre barche ponzesi. Erano usciti dopo un lungo periodo di ferma, dovuta al virus. Avevano bisogno di tornare in mare, avevano delle famiglie che li aspettavano a terra.
Siamo arrivati sulla Luna e anche oltre eppure sentire queste storie e ripensare ai Malavoglia di Giovanni Verga, scritto duecento anni fa, è un attimo.
In mezzo al mare si continua a morire, oggi come sempre. E se si muore così non è per caso.
Da qualche parte c’è qualcuno – politica, lobby della pesca, trattati internazionali – che obbliga i pescatori a mettersi in mare anche quando non dovrebbero perché il mare da frutti sempre più miseri.
Quei pochi pesci – vedi la vicenda dei tonni – se li spartiscono soprattutto i nuovi padroni; quelli che sanno lisciare il pelo ad una certa politica.
Salutiamo con grande affetto le famiglie delle vittime di questa ultima tragedia e la comunità dei pescatori di Terrasini.
Un abbraccio da chi vi conosce da sempre.
vincenzo
16 Maggio 2020 at 15:04
È giusto parlare dei lavoratori, di chi fatica la sua vita quotidianamente con onestà. Non ci si arricchisce con la fatica e spesso si rischia di morire presto. Onore ai lavoratori di tutto il mondo onore a questi tre uomini di mare.
Sandro Vitiello
2 Giugno 2020 at 19:02
Nuove inquietanti dubbi dopo la lettura di questo articolo di Repubblica
https://palermo.repubblica.it/cronaca/2020/06/02/news/i_misteri_del_nuova_iside_il_peschereccio_scomparso_a_palermo_sulla_rotta_spunta_una_petroliera-258191684/