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Cara Madre, deh voi fate…

di Francesco De Luca                  

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Sono uscito sul terrazzo antistante casa mia e ho percepito una voce lontana. L’ho riconosciuta, è quella di don Ramon che sta officiando nella chiesa ss. Domitilla e Silverio in Ponza, la cerimonia della domenica delle Palme.
Credo che sia da solo, in compagnia dell’altoparlante dal quale si diffonde la parola nell’incavo del porto borbonico. E giunge fino a me sull’altura del Belvedere.
Causa il contagio da Covid-19 gli assembramenti sono proibiti ma le liturgie religiose possono essere espletate. Quella della domenica delle Palme comprende anche la benedizione dei ramoscelli di ulivo.

Si portavano a casa e si distribuivano ai membri della famiglia per attestare con spavalderia i legami di pace che ci univano.
Zia Veruccella ne faceva una questione personale e se non ci si scambiava con lei il ramoscello d’ulivo intendeva il gesto come una dichiarazione di contrasto non sanabile. Ma io ero un nipote fanciullo… non avrei potuto nutrire quel sentimento, e allora era lei che mi si avvicinava dimostrandomi coi gesti che la mia dimenticanza era colpevole. Lo scambio dell’ulivo sanava ogni intoppo.
Zia Veruccella, sempre vestita di nero, sempre imbronciata. La settimana Santa era il periodo dell’anno che più amava. Abbandonata dal marito emigrato in America, mai più ritornato e disperso fra le insidie e gli adescamenti del Nuovo Mondo, viveva da sola, in una casa a fianco di quella in cui abitavo io, figlio di suo fratello e dunque nipote.

La settimana di Passione la vedeva sempre presente in chiesa, come a proiettare le sue disgrazie personali in quelle di Gesù, ampiamente ricordate e sottolineate nelle letture. Anche nei canti. Tutti oscillanti fra due sentimenti: il martirio inflitto all’ Agnello di Dio e l’espiazione cui doveva sottoporsi l’uomo per redimersi dal deicidio.
“Sono stato io l’ingrato
Gesù mio, perdono e pietà”

Versi che si ficcavano nella mente come spine. In me, bambino, che ascoltavo assorto.
Ma zia Veruccella indulgeva di più su un altro canto che metteva in gioco il sentimento materno trafitto dall’afflizione per i patimenti del Figlio.
“Cara madre, deh voi fate
Che le piaghe del Signore
Siano impresse nel mio cuore”.

Ne aveva sopportate di piaghe il suo cuore eppure zia Veruccella cantava come a infliggersi altri dolori. Perché l’ultimo scalza quello precedente. Perché quello mentale è meno cogente di quello reale!

Come avrebbe reagito zia Veruccella all’emergenza del Coronavirus? Non so, oggi, ripensandoci concludo che quelle pratiche inibitorie, imposte dalla Chiesa per la settimana di passione, fossero più consolatorie che fastidiose. Si digiunava il venerdì santo così da ingozzarsi la domenica di Resurrezione, e allo stesso modo doveva valere l’astinenza dal praticare sesso. E così presumo che capitasse per zia Veruccella. Nella settimana Santa tutto il popolo credente pativa quello che lei pensava di patire per l’intera vita.

Era affiliata alla congrega della Madonna Addolorata. Oggi quella scelta mi appare perfettamente in sintonia col processo mentale che aveva elaborato. E insieme a lei erano affiliate altre, di solito donne zitelle, vedove non anziane, o ragazze imbrigliate nelle maglie di un dolore cosmico che, proprio perché tale, affascinante.

Come è capitato a me. Anch’io tuttora, in età avanzata, mi commuovo se sento in lontananza le voci querule delle donne che, fra una stazione e l’altra della Via Crucis, cantano:
“Sono stato io l’ingrato
Gesù mio, perdono e pietà”

Eppure… l’unico perdono che l’uomo, non io soltanto, ma tutti gli uomini dobbiamo è alla Madre Terra, che violentiamo ogni giorno con efferatezza. La pietà poi è da riservare agli ‘ultimi della terra’ perché col loro sacrificio rendono possibile a noi l’abbondanza, il consumo sfrenato, l’arroganza. La gratitudine non ha albergo nel nostro cuore.

1 Comment

1 Comments

  1. Gennaro Di Fazio

    7 Aprile 2020 at 00:40

    In questo momento dominato dall’emergenza COVID-19, in cui mi trovo a dedicare il mio tempo quasi esclusivamente per far fronte a tale emergenza, ho poco tempo per leggere, chiaramente molto meno per scrivere; ma quando le emozioni scuotono la parte più nobile del cervello, allora il tempo lo trovi sottraendolo anche al riposo. Mi riferisco a questa narrazione di Franco De Luca, molto bella, come sono peraltro tutti i suoi scritti, la quale, al di là della sua bellezza, ha determinato in me, ma credo comunque in tanti, oltre al ricordo dei tempi passati quando le relazioni erano dettate dai valori umani, una condizione interiore di serenità anche se condita con un po’ di nostalgia; quella nostalgia che la nostra isola ci innesta, quasi fosse una sua vendetta, sin da quando siamo andati via dalle emozioni che ci offriva: dai luoghi agli odori, dalle albe ai tramonti, dalle tempeste alle calme piatte. È questa una condizione determinata dall’aver vissuto sull’isola la prima parte della nostra esistenza, quasi un imprinting genetico acquisito del quale è impossibile disfarci. Siamo condannati e condizionati dall’essere stati isolani per continuare ad esserlo, nel bene e nel male, fino alla fine dei nostri giorni.

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