di Dante Taddia
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Non so se per via dell’età o forse per il desiderio di non fare perdere le tracce della vita che abbiamo trascorso non solo per quella strettamente legata all’isola ma anche fuori dell’isola, ma la ricorrenza di San Biagio era per noi “rigazzini de Roma” l’occasione di poter ancora gustare… il panettone natalizio.
Le giovani leve, i giovanissimi cioè, commenteranno: “Ma che sta’ a di’?”
Quello che sto a di’, per dare loro una risposta, è che proprio per celebrare questa ricorrenza e per gratificare la gola, spesso oggetto di fastidiosi disturbi, i negozianti di alimentari (i supermercati si contavano sulle punta delle dita) proponevano – con un accattivante, oggi si dice “paghi uno e prendi due” mentre allora era solo “sconto al 50%” – l’acquisto di qualche panettone invenduto per Natale.
I soli unici e veri panettoni erano allora Motta o Alemagna: non c’erano altri marchi, quello con uvetta e canditi. E così le limitate risorse economiche, dopo il salasso delle festività, permettevano di prolungare quel piacere assoluto della fetta di panettone inzuppata nella tazza di latte freddo per la colazione della mattina o per la merenda.
Erano passati circa una quarantina di giorni dai cosiddetti bagordi natalizi in cui troppo spesso il panettone doveva condividere con i vari dolci tradizionali, le castagne secche (’e mosciarelle), ’e nocchie (nocciole), mandorle e noci, le carrubbe (guajianelle), fichi secchi, torroni e simili, er panpepato, ’na cosetta leggera con fichi, uva passa, mandorle, noci impastate co’ farina (poca) e miele (tanto), il posto d’onore sulla tavola.
Per San Biagio dunque il panettone risplendeva in tutta la sua magnificenza e per qualche giorno era il solo e indiscusso re della tavola “pe’ noi rigazzini de Roma”.