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Luisa

di Rita Bosso

 

Prima di conoscerti mi erano arrivati i tuoi ricordi sul confino, trasmessi da Domenico: il gatto Brichetto, il tuo ruolo da piccola ruffiana nella storia tra Pertini e Giuseppina, le ricompense in caramelle.
Sono venuta a trovarti un pomeriggio; mi aspettavo la novantenne in pantofole e vestaglietta, mi trovai di fronte una signora elegante e truccata, passo scattante, pantaloni stile Capri, memoria di ferro: “Ah, sei la figlia di Ciccillo? Grande amico di mio marito, della comitiva facevano parte Domenico Migliaccio, Salvatore Guarnieri.”
Vabbè, il ghiaccio era rotto, velocemente passasti in rassegna i momenti di una vita lunga e affrontata con coraggio: un marito amatissimo, un figlio vivacissimo, nuore, nipoti, pronipoti e, soprattutto, la grande storia d’amore della tua vita: l’albergo. Snocciolavi date, acquisizioni, lavori, ti riferivi alle camere come se fossero persone: la due, la sette…
Uscii dall’albergo grata per averti conosciuto; sono le persone come te che hanno fatto Ponza: pioniere, concrete, realiste, lavoratrici.
Tornando a casa, lungo la via che percorrevano i confinati, ti immaginai bambina e buttai giù queste righe.

A fine sfilata la maestra venne ad abbracciarmi; era stata la mia prima volta come capomanipolo, sapevo di essere stata brava.

Da una casa uscì una donna con un vassoio di zeppole. Procedeva lentamente, troppo lentamente rispetto alla velocità con cui la montagna di zeppole diminuiva; calcolai che il vassoio si sarebbe svuotato molto prima di arrivare dalle nostre parti ma, essendo capomanipolo, non potevo lasciare il mio posto. La donna con le zeppole vide la maestra e si diresse verso di noi; riuscii ad agguantare una delle ultime zeppole: buona, calda, profumava di limone.
– La festa non sarebbe stata completa senza le tue zeppole, Rosina cara – disse la maestra.
– Sto friggendo dalle sei di questa mattina ma non sento stanchezza, in momenti come questi vincono l’allegria e la soddisfazione – rispose la donna, e si allontanò continuando a offrire zeppole.
– Ne ha fatti pochi di soldi col confino, tiene tre case in affitto – commentò sottovoce la maestra; la signorina Titina rispose ridendo che ancora più soldi avrebbe fatto con la fine del confino.
– A certa gente pure la gatta fa le uova – disse la signorina Titina.

Ognuno di noi aveva un motivo per festeggiare e lo facevamo alla maniera nostra, quieta.
La chiusura della colonia confinaria significava la ripresa della pesca, dunque i padroni delle barche rievocavano le grasse pescate del passato e pregustavano le prossime.
L’isola, liberata da militi, garitte e confinati, avrebbe accolto villeggianti, “Diventerà la Capri di Roma” aveva detto il parroco; i commercianti non vedevano l’ora, e festeggiavano.
Le maestre festeggiavano la riuscita della sfilata, più imponente e gioiosa rispetto alle solite esibizioni del sabato fascista.
Io festeggiavo la mia prima volta come capomanipolo e la nuova divisa da figlia della lupa, che nonna aveva cucito per l’occasione.

Festeggiavano i confinati. Vestiti da messa cantata, si scambiavano grandi sorrisi, strette di mano, abbracci. Perfino la signorina Camilla, solitamente triste e seria, passava da un abbraccio all’altro e arrivò a fare un mezzo giro di valzer con un bel giovanotto biondo in giacca e farfallino. L’avvocato, più lustrato del solito, mi passò accanto senza vedermi e andò ad aggregarsi a un gruppetto; solo qualche ora prima mi aveva salutato dal terrazzo chiamandomi “bella lupacchiotta”.
Non ci vedevano. Erano arrivati alla nostra festa a piccoli gruppi, alla chetichella, ci avevano sospinto ai margini e ne erano diventati protagonisti. Stavano coprendo la nostra gioia quieta con un’allegria esagerata e risate rumorose.  La maestra prese la signorina Titina sottobraccio e disse sottovoce “Jammecenne”; l’amica commentò:
– Ma questi, cos’hanno da festeggiare? Pensano che saranno trasferiti a Parigi? Hanno capito che domani andranno a Ventotene, l’isola senza tempo, dove piove o tira vento o suonano le campane a morto?

Li conoscevo bene, la signorina Camilla e l’avvocato, per via di Brichetto. Non mi aspettavo quella festosità esagerata, in piazza; non vedevano l’ora di lasciarci, era chiaro. Sino al giorno prima, la signorina Camilla si era interessata ai miei studi, mi aveva spiegato l’aurora boreale con tanta pazienza; non ci avevo capito niente ma, per farla contenta, le avevo detto di averla vista in cielo, qualche sera prima. Adesso festeggiavano come se noi fossimo i loro nemici, come se fossimo stati i loro carcerieri.

Il cortile di casa mia era deserto; Brichetto, se fosse stato in cortile o sul terrazzo dell’avvocato, mi sarebbe venuto incontro.
Entrai in casa e corsi a spogliarmi; sembravano trascorsi secoli dal momento in cui avevo indossato la divisa di figlia della lupa ed ero uscita da casa volando, per la mia prima sfilata da capomanipolo, accompagnata dal saluto cordiale e un poco sfottente dell’avvocato: bella lupacchiotta.
Nonna e zia Rosalia non avevano avuto bisogno di uscire di casa, per intristirsi. Stavano in un angolo della cucina, sgusciavano legumi e sospiravano.
– Da domani la stanza del piano di sopra è sfitta e chissà se vedrà mai un altro inquilino. Grazie all’avvocato avevamo un’entrata sicura e puntuale – disse nonna.
Zia Rosalia era sul punto di piangere: – E noi, allora? Per ogni lettera consegnata dai confinati e portata in terraferma, Pasquale riceveva bei soldi. Adesso, fine della corrispondenza clandestina e fine del guadagno. Si arricchiranno i pescatori di Ventotene, da domani.”
Tornai in cortile, feci qualche mish-mish di richiamo a Brichetto; si aprì la porta della stanza di Pina. Mia cugina aveva gli occhi rossi e l’espressione di un fantasma.

Fino a sei mesi prima Pina era stata una bellissima ragazza di diciotto anni, bruna, piena di allegria, di amiche e di corteggiatori. Poi l’avvocato aveva preso in affitto la stanza del piano di sopra. Lui doveva avere l’età di mio padre e di zio Pasquale però era avvocato, parlava italiano, vestiva sempre da messa cantata e sapeva riempire la gente di chiacchiere: Pina, nonna, zio Pasquale e pure Brichetto.
– Stanno festeggiando in piazza, sembra che non vedano l’ora di andarsene – dissi.
– Perché, tu non stavi festeggiando? Il paese non stava festeggiando? Come se non vedeste l’ora di cacciarli – Pina rispose, tirando su con il naso.
– Si è visto Brichetto?
– Comunque lui torna.
– Brichetto torna di certo, appena ha fame.
– Scema. Lui appena sarà libero torna e mi sposa. Me lo ha promesso.
– Non è che ha pensato di portarselo a Ventotene? Brichetto è nato su quest’isola e qui deve rimanere. Diglielo, appena torna. Che non si metta in testa idee strane.

Con Brichetto le cose erano andate più o meno come con Pina: chiacchiere, salamelecchi, pezzetti di salame e di lardo ogni volta che gli arrivava un pacco da casa. Il gatto oramai trascorreva gran parte delle sue giornate sul terrazzo dell’avvocato, accovacciato al sole. A volte raggiungeva il terrazzino della signorina Camilla dove lo aspettava un’altra dose di coccole, di chiacchiere e di pezzetti di salame.

Percorsi il viottolo che tagliava la Padura e portava alla casa della signorina Camilla, salii i gradini e arrivai al terrazzino. Lei era indaffarata e animata; passava dalla stanza da letto al terrazzino in preda all’euforia, cantando, quasi danzando; riponeva vestiti in una valigia, sistemava libri negli scatoloni, carezzava le piante. No, non aveva visto Brichetto, disse senza smettere di svolazzare dalla valigia all’armadio.
Tornai verso casa, alternando mish-mish sussurrati a mish-mish urlati. Brichetto l’avevo visto per l’ultima volta al mattino, quando ero uscita di casa: era passato un secolo.
Poteva essere finito in un pozzo, ce n’erano parecchi protetti da una tavola in legno sconnessa, in cui un gatto poteva infilarsi tranquillamente.
Poteva essere finito tra le mascelle di un cane.
Poteva aver ingerito un’esca avvelenata riservata ai topi.
Poteva esser finito in un tegame e servito come prelibato coniglio.
Poteva essere stato nascosto in un posto sicuro, da cui l’avvocato lo avrebbe prelevato tra qualche ora, prima di imbarcarsi.
Mi venne in mente la storia di Titì, il cane con cui l’avvocato era partito da Lipari; me ne aveva parlato lui stesso, ma in termini non troppo chiari.

Ogni passo era un mish-mish e un’ipotesi angosciante; qualunque fosse la sorte toccata a Brichetto, comunque, era meglio della gelida indifferenza della signorina Camilla; lei, che fino a qualche giorno prima lo aveva riempito di coccole, era già lontana, alla ricerca di altri gatti da accarezzare, di altre bambine da interrogare, a cui dare spiegazioni improbabili.
Feci di corsa l’ultimo tratto del viottolo e i gradini che conducevano alla terrazza dell’avvocato. Adesso, sapere che fine avesse fatto Titì era necessario e urgente; i destini di Brichetto e di Titì erano intrecciati in qualche modo misterioso. Entrai decisa nella stanza e, senza badare ai bagagli, gli ordinai di parlarmi di Titì.
Scosse la testa, disse che non era storia adatta a una bambina di otto anni.
Neanche gli risposi; lui disse “Ma tu sei una bella lupacchiotta”, tirò un sospiro e cominciò a parlare, senza guardarmi.

Brichetto tornò a casa il pomeriggio del giorno dopo; la nave che trasportava i confinati a Ventotene era partita all’alba.
Era ferito, il pelo aveva chiazze vuote e macchiate di sangue; doveva avere avuto la peggio in qualche combattimento d’amore.
A modo suo, pure Brichetto aveva festeggiato la chiusura della colonia confinaria.

1 Comment

1 Comments

  1. Gianfranco Trombetta

    27 Novembre 2019 at 16:30

    Sembrerà strano ma circa quattro anni fa feci anchi’o la stessa visita alla signora Luisa, che non avevo mai conosciuto; mi interessava conoscerla perché di cognome si chiamava Mazzella come mia mamma.
    Ricordo che con il figlio un pomeriggio prendemmo un gommone a Sant’Antonio per andare a fare un bagno a Cala Inferno, dove si vedeva ancora la punta della nave affondata.
    Al ritorno consegnammo il gommone alla nipote e parlando del più e del meno le chiesi se potevo conoscere la nonna.
    Mi rispose: “Ha solo da andare alla pensione”.
    Cosi il figlio andò a casa a farsi una doccia e io mi avviai alla pensione Luisa.
    Entrai e subito la incontrai e mi presentai come il figlio di Maria Mazzella: Lei si ricordava perfettamente chi era anche se era più giovane di mia mamma.
    Ricordava che andavano dalle suore di Ponza, che mia mamma sposò uno della polizia (mio padre).
    Scoprii che era sorella della mamma di Biagino e Anna Maria De Luca che abitavano al Giudicato.
    Anch’io ricordo che nonostante l’età Luisa era perfettamente attiva e ricordava tutto
    Contento di averla conosciuta.

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