di Francesco De Luca
per la prima parte (leggi qui)
Seconda parte
Si fecero cinquemila prigionieri.
L’ Assereto, elogiato apertamente dal re, pretese la spada della resa ma il Magnanimo gliela negò. Non poteva, lui di sangue reale, cederla ad un notaio. Né lui né alcuno del suo nobile seguito. C’era nell’equipaggio dell’ Assereto un tale Iacopo della casata Giustiniani. I suoi avi erano stati infeudati quali signori dell’isola di Scio. Jacopo in verità a Genova conduceva una vita da semplice cittadino. A lui fu concesso l’onore di ricevere la spada del Re e dei suoi fratelli..
A Gaeta, come a Genova, si organizzarono tre giorni di festa e il giorno di san Domenico, il 4 di agosto, fu proclamato giorno da ricordare. I Gaetani, dopo gli stenti dell’assedio, pensarono che i genovesi avrebbero riportato l’abbondanza dei loro traffici. I Genovesi attendevano dalla vittoria un periodo di prosperità.
La vittoria fece scalpore in tutte le segreterie di stato e nei palazzi del potere. Alfonso l’ Aragonese perse l’immenso bottino dei preziosi che si portava dietro. Come promesso l’ Assereto lo spartì fra i marinai. Al Governatore di Genova e agli Anziani vennero donati le croci, i candelabri e i paramenti sacri.
Ma al Re a ai suoi pendeva sul capo ancora il riscatto per la libertà.
Qui entra in scena Filippo Maria Visconti di Milano.
Egli richiese all’ Assereto di proseguire il viaggio in Sicilia e occuparla (priva com’ era del suo sovrano Alfonso). Ma l’Assereto rifiutò adducendo la ragione che le sue truppe erano insufficienti allo scopo. Ubbidì invece all’invito del Visconti di sbarcare a Savona i Reali e i prigionieri. Da lì sarebbero andati a Milano perché voleva trattare lui il rilascio, personalmente col re. Col quale aveva già iniziato a colloquiare fin dagli esordi del contrasto d’ Angiò – d’ Aragona.
Il trasferimento a Milano trovò un ostacolo: il re di Navarra, fratello di Alfonso pretendeva di muoversi con un baldacchino, come esigeva il suo rango. La cosa fu risolta e Alfonso si trovò a trattare della sua liberazione con Filippo Maria Visconti.
Il re aveva tanti argomenti che potevano saziare l’ambizione del Visconti. Non ci fu trattativa. Filippo tralasciò di esigere il riscatto. Tributò onori al Re, gli offrì doni e si disse pronto a portarlo a Napoli. Chiese a Genova di approntare sei grosse navi per il trasferimento a Napoli.
Ma non era questo il solo gioco che faceva il Visconti. Contemporaneamente trattava con Renato d’Angiò perché si rifornisse, nella lotta contro l’ Aragonese, di uomini da lui.
L’inganno venne presto scoperto. A dicembre del 1435 i Genovesi, delusi per non aver ricevuto la Sardegna in cambio della libertà dell’ Aragonese, si ribellarono al Duca di Milano. Scacciarono la guarnigione lombarda. A capo dei rivoltosi c’era quel Francesco Spinola, strenuo difensore di Gaeta.
Francesco Spinola
E Biagio Assereto? Anche lui aveva ceduto alle lusinghe del Visconti e, in cambio dello sbarco a Savona dei vinti a Ponza, ricevette la nomina a conte di Serravalle Scrivia. Qui si ritirò dopo essere stato messo al bando dai concittadini di Genova che giudicarono il suo comportamento troppo assoggettato al Visconti. Ritornò ad essere uomo di penna e, come tale, conobbe Enea Silvio Piccolomini, il futuro papa ( Pio II ). Costui alla sua morte scrisse il panegirico. Lo titola In Axeretum e qui ricorda la battaglia di Ponza.
Dell’ Assereto rimangono tre versioni dei fatti accaduti: una in volgare, le altre due in dialetto, una in genovese e una in dialetto veneto. Sono appendici agli Annales Genuenses di Giorgio e Giovanni Stella.
Ritornato dotto scrittore Biagio Assereto mostra in esse la sua indole di uomo dabbene, umile e devoto. Non rimarca nessuna dote guerriera e attribuisce ogni merito della vittoria al Signore Iddio e a san Domenico, nel giorno della sua ricorrenza.
Le navi aragonesi – racconta – lo attendevano nel mare fra Terracina e Ponza in quel giorno battuto dal levante. Le navi aragonesi erano stracolme di armati. Alcune, le più piccole, ne contenevano seicento, mentre le altre anche ottocento e quella reale addirittura mille.
Sottolinea come il suo compito primo fosse di soccorrere Gaeta e non altro, per cui lui drizzò verso Ponza per evitare lo scontro. Ma – come scrive – “ molto presto le galere loro (spagnole, nota mia) furono a noi, alle quali mandai il mio trombetta (un segnale, nota mia) pregando la maiestà del Rei non ne volesse noxere, ma ne lasciasse andar a Gaeta e che l’ illustrissimo signor nostro (Renato d’ Angiò, nota mia) e la nostra communitade non vogliamo guerra con la sacra maestà del detto Rei ” (pag. 154- Apollonj Ghetti).
Alfonso all’ invito gli inviò un suo messo, tale Francesco de Capoa, al quale fu ribadita la volontà di non volere lo scontro armato ma soltanto portare ai Gaetani assediati il sollievo del cibo.
Tale Francesco ritornò indietro col comando di Alfonso di abbassare le vele e di arrendersi. L’ Assereto, “intezo noi questo, statim sine mora, prima che l’araldo si partisse ”, avvertì con segnali di tromba tutta la squadra che non c’era altro da fare che combattere. “ Meglio era morir con honore che vivere con vergogna ” (pag. 156).
Dalle navi genovesi s’alzò un urlo “Viva sancto Giorgio”, al quale risposero dall’altra parte con “ cridi, trombette e tamburi, cridando: Battaglia, battaglia”.
Il vento spirava di poppa alle navi spagnole che ebbero facilità ad accostarsi a quelle genovesi. Con le quali si legarono mediante corde, e tutte insieme venivano trascinate dal levante verso Ponza.
In quell’accozzaglia di navi, di legni, di uomini e di armi l’ Assereto trovò la sua vittoria.
Firmata: data in nave nostra supra insula Poncie, octava idus augusti anno MCCCCXXXV.
[La battaglia di Ponza del 1435. Un racconto documentato (2) – continua]