di Sandro Russo
È morta qualche giorno fa, a 88 anni, la poetessa polacca Wislawa Szymborska. Aveva vinto il premio Nobel per la letteratura nel 1996, e si era sempre tenuta lontana dall’ufficialità del mondo accademico, anche se, con il fiuto che hanno i giovani per i personaggi veri, le sue letture pubbliche erano affollate come concerti rock.
L’abbiamo amata non da ora, per quella sua grazia trattenuta, per l’attenzione agli aspetti minimi dell’esistenza che con la sua poesia riesce a rendere universali e condivisi; a raccontare in versi semplici, quasi ‘ordinari’, il paradosso che è in tutte le cose, nelle sfumature del quotidiano.
Tanto conseguente, nella sua visione del mondo e della vita, da aver preparato con largo anticipo il suo ‘Epitaffio’ in versi (certo nella lingua originale più musicali di questi):
“Qui giace come virgola antiquata / l’autrice di qualche poesia. La terra l’ha degnata / dell’eterno riposo, sebbene la defunta / dai gruppi letterari stesse ben distante. / E anche sulla tomba di meglio non c’è niente / di queste poche rime, d’un gufo e la bardana. / Estrai dalla borsa il tuo personal, passante, / e sulla sorte di Szymborska medita un istante”.
Scrive Pietro Marchesani, traduttore ed amico (anch’egli scomparso di recente), nell’introduzione al suo libro “Elogio dei sogni” (Ediz. Corriere della Sera, dic. 2011)
“La poesia della Szymborska non dà risposte, perché ogni domanda può solo generare altre domande. Essa parla in un modo aperto, dubbioso, non definitivo né definitorio, che non chiude ma apre ulteriori spazi alla riflessione, e di ogni singolo lettore sembra condividere intuizioni, sensazioni e paure. A questo lettore la poetessa di Cracovia dice che, benché si debba vivere in un universo apparentemente governato dall’assoluta casualità, nel poeta alla disperazione si accompagna l’incanto. Ed è l’incanto della poesia che rende al lettore la vita in quello stesso universo più sopportabile e lieve”.
Ma in luogo di altre parole, presentiamo qui due sue poesie…
Piccole morti
Su un viottolo giace uno scarabeo morto.
Tre paia di zampette ripiegate con cura sul ventre.
Invece del disordine della morte, ordine e pulizia.
L’orrore di questo spettacolo è limitato,
a sua portata locale, dalla gramigna alla menta.
La tristezza non si trasmette.
Il cielo rimane azzurro.
Per nostra tranquillità, gli animali non muoiono,
ma abbandonano la vita in una maniera, per così dire, più piatta,
perdendo, vogliamo crederlo, meno sensibilità e mondo;
uscendo, così ci pare, da una scena meno tragica.
Le loro animucce mansuete non ci ossessionano la notte,
mantengono la distanza, conoscono la misura.
E così questo scarabeo morto sul viottolo
Brilla non compianto verso il sole.
Basta pensarci per la durata di uno sguardo:
sembra che non gli sia accaduto nulla d’importante.
L’importante, pare, riguarda solo noi.
Solo la nostra vita, solo la nostra morte;
una morte che gode d’una forzata precedenza.
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Mappa
Piatta come il tavolo
Su cui è posata.
Sopra di lei niente si muove
Né muta posto.
Sopra di lei il mio respiro umano
Non crea vortici d’aria
Né sfuma affatto i suoi nitidi colori.
Perfino i mari sono sempre amichevolmente turchini
sui suoi bordi sdruciti.
Qui tutto è piccolo, accessibile, vicino.
Con la punta dell’unghia posso schiacciare vulcani,
accarezzare i poli senza spessi guanti,
con una sola occhiata
posso abbracciare ogni deserto
assieme ad un fiume proprio qui accanto.
Le foreste sono indicate da pochi alberelli
In mezzo a cui è impossibile perdersi.
A est e a ovest
Sopra e sotto l’equatore
Si sgrana il silenzio,
E dentro ogni seme nero
Gente che vive.
Niente fosse comuni e macerie improvvise
in questo quadro.
I confini tra paesi sono appena visibili,
come se esitassero: – essere o non essere?
Amo le mappe perché mentono
Perché non ammettono le verità aggressive
Perché con magnanimo e bonario humor
Mi dispiegano sul tavolo un mondo
Non di questo mondo.
.
[Da: “Vista con granello di sabbia” di Wislawa Szymborska; Adelphi, 1998]